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Pubblicato il 27/11/2015

in: Poletti ha ragione, meglio fare in fretta

Se Poletti ha detto «Prendere 110 e lode a 28 anni non serve a un fico, è meglio prendere 97 a 21. Così un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare» non ha «detto semplicemente che attardarsi in università per inseguire voti più alti alla fine può portare più danni [...] che benefici»: ha proprio detto che, a suo insindacabile parere (il "Teorema di Poletti"), fare presto, PRESTO, PIÙ PRESTO CHE SI PUÒ, È DI PER SÉ un titolo di merito, perché così «un giovane dimostra che in tre anni ha bruciato tutto e voleva arrivare». Non importa che, per arrivare, magari abbia copiato esami scritti, esercitazioni, e forse pure parti della tesi (ne ho conosciuti): l'importante è che dimostri di aver voluto "bruciare tutto in tre anni".

Spingendo questa "ratio" alle sue estreme conseguenze, allora, tanto varrebbe che uno si cercasse un lavoro già a sedici anni: hai visto mai che, se ha gli attributi belli tosti ed è sveglio, a cinquant'anni non sia già diventato Steve Jobs o abbia trovato l'oro nel Klondike come Paperon de' Paperoni?

Quello che Poletti (il quale, comunque, come tu stessa riconosci, è l'ULTIMO PERSONAGGIO in Italia titolato ad impartire lezioni su cosa sia meglio che una neo-matricola decida di fare della sua appena iniziata carriera universitaria) mostra di non aver capito, con il suo intervento, è quale sia lo scopo VERO, ULTIMO, dell'università.

L'università NON SERVE per formare carrieristi in tre o quattro o cinque anni: serve SOLO ED ESCLUSIVAMENTE a formare le nuove leve della ricerca scientifica (accademica, e non). Per la costruzione delle carriere ci sono (o meglio, ci dovrebbero essere - e non sono sicuro che ci siano più, mentre sono più che certo che esistessero, almeno fino a trent'anni fa, prima dell'infausta stagione delle riforme della scuola che non hanno riformato una beneamata) gli Istituti Tecnici. Cinque anni di OTTIMA formazione professionale, finita la quale, a DICIANNOVE ANNI - NEMMENO A VENTUNO! - uno è già abbondantemente pronto per prendere il largo con le sue gambe.

Che Poletti se ne esca con questo paternalismo da quattro soldi - ripeto, ancora più ridicolo per il fatto di provenire da uno che l'università non l'ha mai vista nemmeno col cannocchiale, e non è che abbia poi fatto questo po' po' di carriera professionale - dimostra, ancora una volta, QUANTO SIANO in realtà LONTANE le nostre classi dirigenti da ciò che pretenderebbero di dirigere.

Ne dimostra, purtroppo, anche l'incredibile banalità "concettuale". Be'... certo che "sbrigarsi a 21 anni" è meglio che "finire a 28", così come "morire a 95 anni" è - in linea di massima - meglio che "morire a 31", "essere ricchi" è in linea di massima preferibile a "essere poveri", "avere una casa in cui abitare" è in linea di massima preferibile ad "abitare sotto i ponti"... e via distillando banalità che avrebbero fatto faville in «Quelli della Notte» di Arboriana memoria.

Peccato che con le banalità da cioccolatini Perugina non si arrivi molto lontano con l'arte del governare la cosa pubblica. Tutt'al più, ecco qua, ci si ferma ai "500 euro come bonus per cultura e integrazione", o ai "due miliardi di euro da spartire fra pubblica sicurezza e beni culturali"... e via, di banalità in banalità, verso il baratro

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Pubblicato il 29/09/2015

in: Più che post-capitalismo, questo è iper-liberismo

«Ma il fatto che in tanti siano soddisfatti di una posizione lavorativa che regala soddisfazioni personali e gestione libera del tempo (in cambio di minore sicurezza economica) non significa che sia qualcosa di positivo in sé.» Di "positivo in sé" non c'è nulla. Persino l'acqua, la preziosa ed insostituibile H2O, se bevuta in quantità eccessive fa [...] male. Quindi, la prova di questo "budino" andrebbe fatta dopo averne abbondantemente mangiato: ossia - fuor di metafora - dopo aver lasciato che questo nuovo "regime" (del sistema economico), o "modello di sviluppo" (come lo chiamerebbe qualcuno), abbia cominciato a produrre qualche frutto sufficientemente maturo da poter essere assaggiato e giudicato per quel che è. Altrimenti, rischiamo di continuare a parlare solo di "sentiti dire", di "si dice / si ritiene / corre voce", il che non porta grande sostanza alla discussione. Un esempio: la "vexatissima quaestio" di Uber. Tu dici: «cosa c’è di sharing economy in Uber, un servizio di noleggio auto con conducente i cui lavoratori sono sottoposti a una vigilanza strettissima senza nemmeno essere assunti? Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo.» Io - che, pur non avendolo ancora mai provato, ritengo Uber un'idea GENIALE, perché sarebbe l'unico modo di dare una SCOSSA EPOCALE al sistema del trasporto pubblico urbano odierno che, così com'è andato "sedimentandosi" nel corso degli ultimi cinquant'anni, FA SCHIFO - ti obietto: 1. vigilanza strettissima? Per forza, a meno di non voler davvero cadere nel caos totale, che non avrebbe niente a che fare con qualsiasi possibile liberalizzazione. L'alternativa sarebbe lasciare ai conducenti una TOTALE libertà di TUTTO, senza esercitare il minimo controllo: col che, si andrebbe a finire dritti dritti dalle parti dei tassinari e degli autisti di micro-bus abusivi partenopei, che fanno quello che vogliono e GUAI a capitargli fra le grinfie se non si è più che sgamati. Se un servizio del genere di Uber vuole davvero provare a "partire", qualcuno dovrà ben esercitare un qualche tipo di controllo. Ora lo esercita l'azienda, essendo il settore pubblico carente anche solo delle "categorie analitiche" con cui poter "inquadrare" il fenomeno: il giorno in cui quest'ultimo avrà imparato come rapportarcisi (per esempio, commissionando all'azienda la fornitura di un certo tipo di servizio "à la Uber", per una certa durata, con determinate condizioni di esecuzione e fornitura: e QUINDI, poi, ESIGENDO un certo tipo di qualità complessiva nella fornitura), probabilmente l'onere del controllo passerà ad altri soggetti. 2. «Hanno una gestione libera del loro tempo, ma lo pagano a carissimo prezzo.» E come facciamo a sapere che, IN GENERALE, il "prezzo" che l'azienda chiede loro di "pagare" è davvero "carissimo"? Gliel'abbiamo chiesto? Ci sono studi in materia? Analisi statistiche di GROSSE moli di dati riguardanti il rapporto Uber-conducenti, lo stato delle relazioni aziendali, le eventuali proteste generalizzate dei conducenti per trattamento inumano / antietico / "ingiusto" e/o "iniquo", o il numero di cause intentate all'azienda per gli stessi motivi? No. Non c'è nulla del genere. Ci sono alcuni servizi giornalistici, sono stati interpellati ALCUNI guidatori (i quali, in parte hanno "vociato" contro l'azienda - con la quale, tuttavia, NESSUNO aveva imposto loro di andarsi a legare mani e piedi - e in parte, però, hanno detto «FINALMENTE MI SENTO LIBERO! MAI E POI MAI TORNEREI INDIETRO!»). Ma non c'è, appunto, alcuno studio SISTEMATICO di come stiano andano le cose laddove Uber ha avuto la possibiltà di "attecchire", senza che qualche preesistente "corporazione" le mettesse - o le facesse mettere dallo Stato - i bastoni fra le ruote, letteralmente. Quindi, se le cose stanno così, di che parliamo? E inoltre: nel settore del trasporto urbano, qual è allora la situazione che ci va bene, quella attuale, con i tassì fermi più o meno in pianta stabile nei loro parcheggi ad aspettare clienti, e magari 50 € per fare venti chilometri? (sono SECOLI che non prendo un tassì a Milano, ma vedo - dalle tariffe ufficiali - che non siamo molto lontani da questi valori) Uber è un ESPERIMENTO. Potrebbe funzionare, oppure no: ma se - ora per una ragione, ora per un'altra - non lo si lascia partire DA NESSUNA PARTE, non sapremo MAI se avrebbe potuto essere un buon modello (benché, magari, migliorabile), o se era solo una truffa. Mutatis mutandis, lo stesso discorso si applica ad OGNUNO degli "esperimenti" di cui sembrerebbe essere costituito questo nuovo "modello". Essendo quasi tutti nati da un'idea assai specifica, e spesso partiti a livello locale (i.e.: relativamente ad una ben precisa "comunità", magari virtuale), senza alcuna "macro-progettazione illuminata" dall'alto, potrebbe darsi che su diversi temi (la mobilità, l'ambiente, l'alimentazione, l'energia) siano più "astuti" di tutti i Mega-Progetti visti (fallire) in passato. Concepiti a tavolino nel chiuso di un qualche centro studi, costati magari MILIARDI (di euro o dollari PUBBLICI), attuati pensando di aver calcolato OGNI POSSIBILE imprevisto - e TUTTE le possibili vie d'uscita conseguenti - e poi magari schiantatisi contro il primo imprevisto DAVVERO IMPREVEDIBILE, che non era stato preso in considerazione all'epoca del concepimento del progetto. Gli esempi si sprecano: mega-aeroporti mai entrati a regime, mega-porti mai diventati quegli "hub" globali che si prevedeva sarebbero diventati, mega-strade-&-autostrade realizzate sbancando intere cordigliere montuose, o abbattendo centinaia di ettari di foreste, e meno affollate di mulattiere, per mancanza OGGETTIVA del volume di autoveicoli che si pensava avrebbero attirato. Potrebbe darsi: oppure no. Magari, invece, si riveleranno anch'essi altrettanti buchi nell'acqua che, alla resa dei conti, non ci avranno fatto avanzare di un millimetro. Ma COME POTREMO MAI SAPERLO, se non proviamo a "lasciarli accadere"? Peace :-) A.i.R.

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Pubblicato il 23/02/2015

in: Cari intellettuali indignati, se Einaudi c’è ancora è anche grazie a Berlusconi

Caro Federico, un bell'articolo, per una bella - ed utile - provocazione. Però non sono d'accordo. Il cinismo della nostra "sinistra cerebrale" (e, a scanso di equivoci, aggiungo subito che sono anch'io "malato di politica, a sinistra senza dogmi") è ben noto: ma non li accuserei, in questo caso, di non aver capito - o piuttosto di non [...] riuscire ad accettare - che in questo momento l'industria culturale italiana è sostanzialmente puntellata dai "decerebrati" elettori del centro-destra e dai loro consumi televisivi. Ad un geniale "marpione" come Eco, poi, che già 50 anni fa ammiccava alla cultura "pop" con Apocalittici e integrati, e che in seguito ha saputo assurgere a fama imperitura (;D) con coltissimi romanzoni di appendice, anziché con i ponderosissimi saggi di semiotica, un'accusa del genere mi parrebbe proprio calzare come una scarpa stretta. E infatti, in questo caso, facendo momentaneamente finta di non vedere il loro cinismo "medio" e la loro inveterata tendenza a tirare acqua al proprio mulino, ritengo abbastanza fondata l'invettiva pubblicata sul CorSera di ieri. Mi pare fondata, proprio perché siamo GIÀ un paese caratterizzato da una scarsa e povera circolazione della cultura e da un controllo sostanzialmente oligopolistico dei centri di produzione dell'informazione: e dunque mi preoccuperei seriamente della nascita di un gruppo editoriale capace di controllare il 40 % del mercato (e la quasi totalità delle librerie). Mi preoccuperei, perché lo vedrei come il primo passo verso un monopolio (se dopo l'acquisizione di RCS, Mondadori si comprasse un paio degli altri maggiori editori, arrivando al 60 o al 70 %, potremmo infatti sostanzialmente parlare di monopolio): giunti al quale, non riesco nemmeno ad immaginare cosa potrebbe ulteriormente accadere, proprio ANCHE a causa dell'essere, questo, un paese di persone che DIFFICILMENTE scenderebbero in piazza per salvare la piccola libreria indipendente dalla chiusura. O, meglio: lo immagino benissimo. Basta pensare - mutatis mutandis - ai danni arrecati dal monopolio FIAT all'industria metalmeccanica italiana, al sistema dei trasporti, alla ricerca ingegneristica sui mezzi di trasporto di nuova generazione... e perfino all'immaginario collettivo italiano. Per tacere, poi, dei danni fatti alla politica. Ecco: trasferiamo il tutto nell'ambito editoriale, e potremmo avere un quadro plausibile della situazione...

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