Alessio
Mazzucco
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Pubblicato il 14/04/2015

in: Contro la meritocrazia

Ottimo articolo. Il finale lirico whitmaniano faceva un po’ “L’attimo fuggente” (Qual è il senso della vita? Che tu sei qui, che il grande spettacolo continua e tu puoi contribuirvi con un verso), e mi sei (posso darti del tu?) un po’ caduto sul commento in cui tiri in ballo la Bocconi (essendo un Bocconiano [...] mi sale sempre un po’ di stizza quando l’Università viene citata come esempio politicamente malvagio del liberalismo transnazionale). Ma tant’è. Hai sollevato un argomento spinoso ed eccezionale, la meritocrazia, che si lega a doppio filo con quell’altro tema altrettanto eccezionale, la giustizia – in senso lato naturalmente: qual è la giusta distribuzione delle ricchezze? Cos’è giusto? Cos’è sbagliato? Chi è giusto che meriti e così via… Ottimo, partiamo di lì. Nel discorso pro o anti meritocrazia c’è una fallacia logica di fondo che ho sempre trovato insopportabile: l’idea di poter dare una definizione assoluta. Il merito è: tac. E la meritocrazia è quel regime in cui il merito prevale: un discorso semplice e pulito. Ribaltiamo la questione e non chiediamoci cosa sia il merito in assoluto, ma per noi. Perché dovrei meritare qualcosa, un lavoro, soldi o un voto alto? Perché, agli occhi della società/mercato del lavoro, io valgo una certa quantità di soldi/voti/riconoscimenti arbitrariamente misurati su un insieme di valori non predeterminati, ma insiti nella cultura della società, e quindi mutabili nel tempo e nello spazio. In breve, un manager mi dà lavoro se pensa che le mie capacità possano produrre qualcosa per la sua azienda, mi manda a casa se pensa di essersi sbagliato. Il manager, così come un qualunque altro individuo, non si chiede se io, persona fisica, “Alessio”, meriti in assoluto, in astratto, se io sia la rappresentazione fisica dell’idea di merito (ricordano qualcuno queste parole?), ma si chiede semplicemente se in quel dato momento, in quel dato settore, io meriti fiducia. Verrebbe da dire “E’ il mercato, bellezza” e invece diciamo solo che è stato, è e sempre sarà così, perché si preferirà sempre un medico bravo a uno meno bravo per farsi curare e un muratore più abile a uno meno abile per tirar su la propria casa. Abbandoniamo per un attimo i lidi del mercato e parliamo di merito in Italia. C’è? Non c’è? Sarebbe inutile citare esempi (un esempio non fa una statistica) così come ricerche statistiche quantitative (giustamente, dici tu, c’è un’enorme area grigia di definizione che non può essere facilmente colta dall’econometria o chi per essa). Io dico “il merito in Italia non c’è”, e non lo dico per indottrinamento bocconiano, fede anglo-liberale o inception americana, ma per un ragionamento molto molto semplice. Il merito manca laddove ci sono troppe regole. Che significa? Buona domanda. Le regole limitano tutto quel che è diverso da quanto predeterminato da un atto d’imperio di un gruppo di potere. Ovvero, non importa quali siano le mie soft-skill o hard-skill, l’importante è rispondere a requisiti scelti fuori di me, che posso avere (che fortuna!) o no (mi spiace, sei fuori). Poco chiaro? Faccio un esempio: che senso ha dire che il mio stipendio e la mia carriera nella pubblica amministrazione/settore privato avanzano per anzianità e non per obiettivi raggiunti? Un sistema di questo genere può esistere solo per emanazione legislativa su indicazione di un gruppo che ha paura della competizione di altri, e un sistema di questo genere può esprimersi solo in un Paese dove questa idea malsana sia diffusa e accettata, dove la competizione è vista come il male (fratelli, non mettiamoci l’uno contro l’altro!) e chi merita per mille ragioni e mille motivi se ne va, semplice e pulito, a cercare posti dove le opportunità sono sfruttate e le proprie competenze messe in pratica. Arriviamo al tema giustizia. Nelle sue lezioni harvardiane, Michael Sandel si domandava se sia giusto che un giocatore di basket guadagni milioni quando il suo asset principale è l’essere più alto di 2 metri (caratteristica puramente genetica); noi, più prosaicamente, chiediamoci cosa accadrebbe allo stipendio di Totti se in Italia lo sport più seguito fosse il curling e non il calcio: otterremmo un ironico e oltremodo divertente cambio di prospettive salariali del capitano della Roma. Alla domanda “è giusto o no che guadagnino così tanto per una caratteristica fisica?” io rispondo che preferisco di gran lunga così invece di ritrovarmi un gruppo di persone che votano decidendo chi o cosa meritino di più di altri. L’uomo è imperfetto: all’imperfezione non aggiungiamone altra con l’imposizione esterna. Arriviamo al punto nodale del titolo: la meritocrazia. Ah! Cavallo di battaglia di chi sfida la feroce chimera della cultura a stelle e strisce! Meritocrazia, di cui notavi giustamente l’origine in “Potere dei meritevoli” indica nient’altro che la Repubblica platonica, dove i meritevoli erano i filosofi, gli unici in grado di condurre il popolo verso il sol dell’avvenire. Sì, la meritocrazia è una distopia spaventosa, ma non ha niente a che vedere con il concetto di merito. Da qui la domanda ultima che ti pongo: che cosa accomuna un titolo come “Contro la meritocrazia” con la valorizzazione del merito?

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