Robert Wyatt, i settant’anni di un maestro riluttante

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30 Gennaio 2015

L’antiautoritario e benevolo patriarca del rock d’avanguardia ha appena compiuto settant’anni, ma prego, niente celebrazioni in pompa magna. Quelle le lasciamo alle rockstar anziane, sopravvissute agli eccessi e all’oblio con una dura disciplina a base di lifting, memoir, reunion tour e biopic hollywoodiane. Non che ci sia qualcosa di male, anzi: se uno non si diverte leggendo le biografie di Lemmy o Keith Richards ha sicuramente qualcosa che non va. Ma Robert Wyatt è un’animale del tutto diverso. Un battitore libero con il bisogno innato di aprirsi al mondo esterno e agli altri, che si è sempre mosso tra le pieghe della popular music seguendo una propria personalissima via. Intessendo, nel compiere questo originale percorso, una rete di contatti e collaborazioni che ha pochi eguali per estensione e trasversalità: da Brian Eno a Elvis Costello, da David Gilmour e Nick Mason dei Pink Floyd a Björk, passando per Paul Weller, gli Scritti Politti, la jazzista Carla Bley, la nostra Cristina Donà, solo per citarne alcuni. Tutti costoro ci hanno lavorato e tutti quanti, al di là dell’unanime apprezzamento per l’umanità del personaggio, lo hanno fatto da allievi che si trovano di fronte un maestro, per quanto riluttante a ricoprire il ruolo e impossibilitato per costituzione a prendersi sul serio.

Se proprio si vuole trovare qualcuno che parli male di Robert Wyatt, bisogna rivolgersi direttamente a lui. Il quale però parla male del Robert Wyatt esistito prima dell’incidente spaventoso che nel 1974 lo vedeva, ventottenne, cadere dal quarto piano durante una festa a causa del troppo alcol, e restare da allora costretto su una sedia a rotelle. E non si tratta di ostilità: come ha ribadito in più di una intervista, lui e la sua versione “bipede” non hanno semplicemente nulla a che spartire. Sono due persone diverse.

 

 

Le illuminazioni spirituali e le crisi mistiche in questo caso non c’entrano: il materialismo storico di Wyatt è di lunga antecedente alla sua adesione al partito comunista britannico, avvenuta a fine anni Settanta. La metamorfosi del cantante e batterista dei Soft Machine (e i di poco successivi Matching Mole, risposta all’estromissione dai primi per mezzo di calembour: “matching mole”, talpa combattente, suona come “machine molle”, la resa in francese del nome del gruppo d’origine) a tastierista-autore-cantante riguarda piuttosto un nuovo modo di concepire la musica: impossibilitato a suonare la batteria, Wyatt esplora da autodidatta le tastiere e sviluppa ulteriormente le possibilità espressive di una voce la cui particolare tonalità acuta sembra sempre sul punto di infrangersi. Senza mai farlo.

Se l’appartenenza alla cosiddetta scena di Canterbury come esponente di spicco era faccenda ormai consolidata (apriamo una parentesi: nella tranquilla cittadina britannica al principio degli anni Sessanta alcuni adolescenti innamorati di jazz, surrealismo e avanguardie storiche, incluso Wyatt, scoprivano il pop e la psichedelia, inaugurando un filone che avrebbe poi influenzato tutto il rock “di confine” degli anni Settanta), con il primo esito artistico della nuova era, il capolavoro “Rock Bottom”, nel 1974 Wyatt diventava una figura ancora più autorevole, trasversale come poche altre.

Un disco complesso, impegnativo, eppure al tempo stesso profondamente empatico ed emotivo, che apre nuove porte e delinea nuovi parametri: canzoni espanse e fluide eppure a loro modo straordinariamente melodiche, testi intuitivi che coniugano astrazione, lirismo e umorismo surreale, l’assenza di rigidi schemi formali su tutto. Un disco dove il contributo della compagna di Wyatt, la pittrice Alfreda Benge, musa e in seguito pure coautrice, è fondamentale. Nel 1975 un secondo album, appena meno a fuoco, “Ruth Is Stranger than Richard”, funestato da problemi di budget e incomprensioni con la giovane e dinamica Virgin e il suo patron Richard Branson, che lo aveva messo sotto contratto l’anno precedente, precede un lungo silenzio, appena smorzato dalla partecipazione sporadica a progetti altrui.

 

 

Un silenzio interrotto all’alba degli anni Ottanta grazie alla perseveranza di Geoff Travis, a capo della più influente etichetta indipendente dell’epoca, Rough Trade, il quale lo convince a registrare una serie di 45 giri in cui rielabora l’interesse per le musiche del mondo, alimentato negli anni precedenti dall’ascolto della radio a onde corte e dagli ideali di una rivoluzione socialista su base internazionale, pur lontani dall’ortodossia.

Grazie a quelle registrazioni, spartane e autarchiche, Wyatt entrava in contatto con la generazione di artisti fiorita nel dopo punk, creando un legame forte, cementato dal comune disprezzo per l’era thatcheriana e i suoi valori. Se il punk aveva spazzato via i dinosauri del rock anni Settanta, Wyatt, eretico, diverso da tutti gli altri, era stato accolto come una sorta di padrino.

Un’alleanza sancita da “Shipbuilding”, poetica canzone antimilitarista scritta da Elvis Costello nel pieno della guerra delle Falklands appositamente per Wyatt: sarà l’unico suo ingresso nella top 40 delle classifiche britanniche, insieme alla cover, incisa una decina di anni prima, di “I’m a Believer” di Neil Diamond.

 

 

Gli anni Novanta coincidono con un nuovo silenzio, dovuto a qualche piccolo problema di salute e alla depressione, ma si chiudono, nel 1997, con “Shleep”, l’ennesimo celebrato ritorno, con tanto di lunga coda: un paio di nuovi dischi nel nuovo millennio, “Cuckooland” (tra le nomination del prestigioso Mercury Prize) e “Comicopera”, un nuovo contratto con il colosso indipendente Domino, nuovi fan che lo coinvolgono direttamente (Hot Chip) oppure se ne dichiarano eredi spirituali (i These New Puritans).

Un’onda lunga che conduce alla sua prima biografia autorizzata, “Different Every Time”, scritta da Marcus O’Dair e pubblicata lo scorso autunno, che non risparmia i momenti di crisi e le pagine oscure. L’uscita del libro è accompagnata da una doppia antologia di brani (“Ex Machina” il primo disco, incentrato sulle prove soliste e i suoi primi passi nei Soft Machine e nei Matching Mole, “Benign Dictatorships” il secondo, una selezione inevitabilmente ristretta ma comunque significativa di collaborazioni) che potrebbe essere la sua ultima uscita discografica. Avendo ormai passato i 65 anni, “come i macchinisti” dice, Wyatt fa sapere che è giunta l’ora di riposarsi.

Ma è difficile crederci fino in fondo, mettendo insieme i suoi proverbiali tempi di gestazione creativa (18 mesi anziché 9, come gli elefanti, ipse dixit), la sua arguta – ma sincera – modestia, e il ciclico ribadire (smentito più volte) di non aver più niente da dire.

Se poi fosse tutto vero, be’, caro Robert, goditi pure la pensione. Con cinquant’anni di stimolante e inesausta produzione musicale fuori schema all’attivo, te la sei ampiamente meritata.

TAG: avanguardia, Musica, Robert Wyatt
CAT: Musica

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