La pillola della bontà ci avrebbe aiutato contro il Covid-19?

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15 Luglio 2020

La strana idea del biopotenziamento morale per gestire la pandemia: una medicina contro la cattiveria

Durante la quarantena ci sembrava di star assistendo ad una grande lezione di vita, le liste degli insegnamenti nati dall’isolamento fiorivano sulle nostre bacheche e venivano proclamate su ogni rete: tutti più uniti, tutti più responsabili, tutti più attenti all’ambiente, insomma, tutti più buoni.

Ora che possiamo uscire per le strade sono tornati i nostri vecchi vizi: fiumi di automobili, di scarichi industriali, disinteresse per gli altri. Sembra che davvero non impariamo nessuna lezione. “L’esperienza insegna che gli uomini dall’esperienza non hanno mai imparato nulla” direbbe Bernard Shaw.

Una proposta per estirpare la nostra cattiva radice viene dal dipartimento di filosofia di Oxford, una delle voci più influenti che vivacizza il dibattito sullo human enhancement, cioè il potenziamento delle capacità cognitive e di performance attraverso l’implemento di apparati tecnologici nel corpo umano. Si tratta di quelle scuole filosofiche che vedono per il futuro dell’umanità nuove generazioni di cyborg, che, grazie alla sempre più stretta convivenza con la tecnologia, riusciranno a superare tutte le nostre debolezze: le malattie, la vecchiaia, e ora persino la meschinità.  Il potenziamento tecnologico sarebbe dunque anche morale. Studiosi come Julian Savulescu e Ingmar Persson nel loro libro Unfit for the Future? The Need for Moral Enhancement, considerano la necessità di attuare interventi biomedici per modificare direttamente le basi biologiche e psicologiche della motivazione morale umana. Ma è veramente possibile? Questi studiosi credono che sia relativamente semplice, basterebbe che tutti assumessimo con regolarità e controllo sostanze che già conosciamo ed utilizziamo in campo medico, come l’ossitocina, che favorirebbe la fiducia, e l’inibitore selettivo della ricaptazione della serotonina (SSRI), che aumenterebbe la cooperazione e ridurrebbe l’aggressività. In questo modo la biotecnologia aiuterebbe a migliorare le disposizioni morali degli esseri umani e aumenterebbe le motivazioni ad agire secondo i principi di giustizia. Questa sarebbe la ricetta per estirpare alla radice la nostra meschinità: ormoni e psicofarmaci.

Questo approccio sarebbe giustificato da un’ulteriore convinzione: la nostra cattiveria è scritta nei nostri geni. Sarebbe proprio la nostra predisposizione genetica ad impedirci di provare empatia per persone sconosciute o distanti. Questa miopia morale congenita renderebbe le persone indifferenti a problemi futuri o lontani, come le conseguenze del riscaldamento globale o le guerre in altri continenti. Ecco perché la storia sarebbe una maestra didatticamente poco efficace: le circostanze cambiano, lo spavento della pandemia passa, torna ad essere una possibile minaccia futura, o un’emergenza che riguarda altri, insieme allo scioglimento dei poli, la desertificazione, la lotta alla sopravvivenza di chi attraversa il mar Mediterraneo su barconi instabili alla ricerca di una possibilità. La nostra cecità morale collettiva ci impedisce di preoccuparci di ciò che non è più contingente, e se questo limite è un errore genetico, allora sarà la biotecnologia, con le sue pillole della bontà, a correggerlo.

 

La terapia che accompagna il farmaco

La soluzione farmacologica appare utopica e semplicistica, e presenta diversi problemi etico- filosofici. Infatti, il comportamento umano non dipende solo da un fattore biologico ed è quindi difficile controllarlo con interventi biomedici. Anche Savulescu e Persson, dell’università di Oxford, non sono così miopi da ignorare un fatto tanto evidente, per cui propongono di affiancare alla cura farmacologia un processo di educazione cognitiva per sviluppare la nostra capacità di ragionare e completare questo programma di bio-enhancement morale. Tuttavia, anche questa combinazione appare problematica in quanto si fonda su un’idea di morale oggettiva che non tiene conto delle differenze socio-culturali.

Il problema principale dei due studiosi è il dare, kantianamente e platonicamente, per scontato che esistano un bene morale ed un male morale oggettivo. Sembrerebbe un fatto di conoscenza il poter agire secondo giustizia. Praticamente, una ragazzina o un ragazzino educato secondo la scuola di Savulescu e Persson sarebbe in grado di classificare senza dubbi ed interpretazioni ogni azione come giusta o sbagliata e compirà sempre la scelta giusta, perché gli hanno insegnato cos’è il Bene e cos’è il Male; inoltre, grazie alle pillole che assume, i suoi comportamenti saranno più sociali e la sua aggressività verrà repressa.

Ma sappiamo che la realtà è più complessa. Siamo sicuri, ad esempio, che l’aggressività sia sempre condannabile?  Ogni azione va interpretata in base al suo contesto sociale e culturale.

 

Controindicazioni

Proviamo a calarci nello specifico nell’orizzonte sociale in cui agisce ogni nostra azione. Numerosi studi hanno dimostrato che un alto tasso di ossitocina nel sangue corrisponde ad un aumento degli atteggiamenti cooperativi. Per questo motivo l’ossitocina è nota come la molecola della fiducia. Ma è anche stato dimostrato che l’ossitocina agisce in modo diverso a seconda del contesto sociale in cui si trova il soggetto. Un esperimento condotto dall’università di Amsterdam ha dimostrato che l’ossitocina stimola la conformità all’interno di gruppi di persone, ma aumenta anche il pregiudizio nei confronti dei gruppi esterni. Quindi, questa sostanza ha risultati contrastanti: può rafforzare il comportamento pro-sociale o stimolare sentimenti spiacevoli o addirittura antisociali, a seconda del contesto. L’effetto degli ormoni è generalmente difficile da prevedere e non è lo stesso per tutti o per tutte le situazioni, ma dipende dalla cultura e dall’ambiente. Alcuni studi, infatti, hanno evidenziato come in ambito sportivo, in cui è necessaria la competizione, può produrre sfiducia e pregiudizio.

 

Molte bontà possibili

Prendiamo ora in considerazione il contesto culturale. Anche se un farmaco può renderci meno aggressivi di quanto saremmo naturalmente, dubito, tuttavia, che possa farci agire in modo morale visto che i concetti di bene e male non sono scritti nei neuroni, ma sono fattori culturali.

Durante una pandemia globale, per esempio, possiamo immaginare, e in qualche modo abbiamo anche visto in azione, due politiche differenti basate su due prospettive etiche diverse: da un lato una società che propende per un bilanciamento tra la garanzia delle libertà individuali (movimento, associazione, culto…) e le necessità della comunità di proteggersi dal virus. Dall’altro una società che decide di risolvere il problema a totale vantaggio della comunità, attuando una politica coercitiva nei confronti dell’individuo, per esempio usando la forza per impedirgli di uscire di casa.

Il fatto di dare la priorità a un fattore piuttosto che all’altro potrebbe essere culturale, una scelta collegata a una serie di norme e valori promossi e costruiti in un particolare contesto. In luoghi dove una determinata cultura del diritto favorisce l’individualismo e la dignità del cittadino, intesa come accesso ad una quanto più ampia libertà di azione individuale, la quarantena forzata entro le proprie mura domestiche può essere percepita come una temporanea sospensione del diritto. Nel caso contrario, una società che tradizionalmente insiste su valori di comunità forte, senso di giustizia intra-generazionale e solidarietà estesa, vedrà come aberrante il diritto di accedere a scelte individuali, qualora queste compromettessero il benessere della comunità. Chi può dirci con esattezza quale delle due posizioni è morale e quale non lo è? Le argomentazioni a favore di una o dell’altra posizione sono entrambe valide e contestuali, ma le due posizioni sono incommensurabili tra loro perché partono da premesse diverse e giungono a conclusioni diverse, essendo entrambe moralmente accettabili o moralmente inaccettabili allo stesso tempo.

Non si tratta di relativismo morale, infatti non tutte le posizioni sono valide, ma l’accettazione o no di una determinata norma dipende dalla prospettiva culturale dalla quale si analizza il caso, da fattori contingenti, storici e contestuali oppure da un atto emotivo di preferenza.

Laddove è possibile prendere una posizione decisa su un determinato tipo di comportamento, dandone una precisa giustificazione morale, modelli comportamentali spesso antitetici tra di loro possono essere considerati entrambi validi.

 

Una pillola mille dubbi

Dunque l’assunzione delle pillole cambia di significato a seconda del contesto in cui è inserita, e più che fornirci risposte solleva un gran numero di interrogativi: se un atteggiamento morale si traduce in comportamenti diversi, come potrebbe la biotecnologia renderci moralmente più giusti? Basterà una cura bio-tecnologica a renderci più altruisti e quindi più buoni? E poi, essere più altruisti significa davvero essere oggettivamente più buoni? E se l’aggressività di cui la natura ci ha disposto ci servisse per difenderci da un’ingiustizia?

Come possiamo vedere la soluzione dei due filosofi di Oxford appare riduzionista e problematica. Oltre all’incertezza umana di fronte alla scelta morale da seguire emergono altre questioni controverse. L’assunzione del farmaco sarebbe obbligatoria? A chi spetterebbe la decisione di imporre un simile trattamento? Se il farmaco mi impedisse di attuare una scelta anche sbagliata cosa ne sarebbe del mio libero arbitrio?

È facile vedere come ciò che ci viene presentato come una magica soluzione nasconda, invece, ombre orwelliane. Credete davvero che una cura di ormoni e psicofarmaci risolverebbe i problemi del mondo?

 

(immagine: Matrix, 1999)

 

 

 

TAG: Biotecnologie, cambiamenti cultuali e tecnologici, COVID-19, human enhancement, ingegneria genetica, moral bioenhancement, pandemia, potenziamento morale
CAT: Bioetica, Filosofia

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