Se il movimento “Boicotta Israele” danneggia la… Palestina

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24 Febbraio 2015

Viene chiamato movimento BDS: “boycott, divest and sanction”, ovvero boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro le aziende israeliane. Fondato nel 2005 e ispirato inizialmente alla lotta contro  l’apartheid in Sudafrica (in Italia fa capo al sito BDSItalia), ha negli anni assunto una forte componente antisemita. Ma non ha assolutamente intaccato l’economia israeliana, finendo anzi per danneggiare quella dei territori palestinesi.

Ad analizzare il fenomeno è Forbes, che cita Kristin Lindow, capo analista di Moody’s  per l’Israele: “L’impatto di BDS è più psicologico che reale,  finora non ha avuto alcun impatto discernibile sul commercio di Israele o sull’economia in generale”. Anzi, prosegue l’economista dell’agenzia di rating, “sta correndo il rischio di affossare quella palestinese, come dimostra il caso SodaStream”.

Mentre infatti la grande industria dello stato ebraico è assolutamente immune ai propositi di BDS, a farne le spese sono semmai piccole aziende come appunto SodaStream, che produce apparecchi per produrre bibite gassate fai-da-te in una fabbrica nella West Bank, dando lavoro a centinaia di palestinesi con salari medi dalle tre alle cinque volte superiori a quelli dell’area, ma che ora è pronta a trasferirsi nel sud di Israele.

“Non ha niente a che fare con la politica – ha provato a smentire Daniel Birnbaum, Ceo di SodaStream, parlando al The Independent -: ci stiamo semplicemente trasferendo  in una struttura moderna che è tre volte più grande. Ma se fosse per me – ha ammesso -, sarei rimasto. Abbiamo mostrato al mondo che arabi ed ebrei possono lavorare insieme”.

Il fenomeno è supportato da numeri che parlano da soli: Israele ha 8,3 milioni di abitanti e un Pil da 291 miliardi di dollari, decine di volte superiore a quello dei territori palestinesi, che hanno la metà degli abitanti. Nel 2012, Israele ha venduto prodotti nei territori per 4,3 miliardi di dollari, ovvero il 5% delle esportazioni (esclusi i diamanti) e meno del 2% del Pil del Paese, secondo i dati della Banca d’Israele. Viceversa, sempre nel 2012 le vendite dai territori palestinesi verso Israele hanno rappresentato circa l’81% delle esportazioni palestinesi e meno di un punto percentuale del Pil israeliano, mentre gli acquisti palestinesi da Israele sono stati i due terzi del totale delle importazioni palestinesi (e il 27% del Pil palestinese).

L’asimmetria di questi dati dimostra che, almeno dal punto di vista economico, la Palestina ha bisogno di Israele. “Il movimento BDS – sostiene Forbes – sta compromettendo i legami commerciali tra le due aree, rischiando di danneggiare il surplus che Israele offre alla Palestina e non offrendo nulla in cambio”. “E’ facile – insiste Forbes – lanciare pietre digitali dal confort della California o da un elegante palazzo britannico. E’ invece più difficile retribuire  circa 110.000 palestinesi come fa Israele, o costruire 16 parchi industriali in Cisgiordania e a Gerusalemme Est, che ospitano 1.000 strutture in cui ebrei e arabi lavorano spalla a spalla”.

Del resto, la scorsa estate, se ne è reso conto lo stesso giornale ufficiale dell’Autorità palestinese, Al-Hayat Al-Jadida: “Meglio lavorare per gli israeliani”, aveva titolato, rimproverando i datori di lavoro palestinesi di elargire stipendi troppo bassi e di non riconoscere abbastanza diritti ai lavoratori. Adesso, contro il movimento BDS, si sono mossi anche gli Stati Uniti che al Congresso, su iniziativa congiunta del repubblicano Peter Roskam e del democratico Juan Vargas, hanno appena introdotto l’Israel Trade and Commercial Enhancement Act: l’operazione è volta a scoraggiare la presenza di BDS nei Paesi con i quali gli Usa chiudono accordi commerciali.

TAG: arabo-israeliani, economia, Grandi imprese, Israele, Palestina
CAT: discriminazioni, Grandi imprese, Imprenditori, manifattura, Medio Oriente, PMI

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