Trasformarsi

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11 Maggio 2021

Se impariamo a pensare, come voleva insegnare Michel Foucault ai suoi allievi del College de France, scopriamo che i discorsi che circolano hanno effetti di potere e penetrano i nostri modi d’essere. E lo fanno nel vero senso della parola, non esiste infatti un pensarci oltre le categorie e i punti dei discorsi che ci “determinano”; più precisamente l’espressione che utilizza il filosofo è modi che ci costituiscono come soggetti.
Leggendo Foucault, ovvero quelle bellissime esperienze di pensiero in cui sa condurci, la domanda principale che ci sollecita è: cos’è questo noi stessi “oggi” a cui ci riferiamo?
Il punto di partenza in Foucault è, infatti, la scoperta generale e ontologica che i soggetti sono sempre soggetti di “sapere e potere”. Ma cosa intende per sapere? Si tratta di categorie che fanno parte di un bagaglio storico con le quali pensiamo noi stessi, gli altri e il mondo e che ci “determinano” attraverso i “discorsi che circolano”. Si capisce subito come, qualsiasi linguaggio noi utilizziamo, dalla prima parola al modo di metterle assieme, fino ai significati che compongono, non sono pienamente sotto il nostro dominio: a. perché non possiamo decidere di inventare d’emblée nuovi vocaboli, né strutture sintattiche “altre”, b. perchè l’effetto di questi discorsi è predeterminato – ordinato – e dunque il suo uso, porta con sé effetti di potere nel determinare l’identità di ciò che incontriamo e andiamo definendo del mondo, c. altresì sappiamo che i significati sono inseriti in contesti culturali che in genere creano un ordine della realtà, di cosa è bello e cosa è brutto, cosa va bene e cosa no, ecc. Quindi, per potere, e lo abbiamo già anticipato, possiamo intendere, molto sinteticamente, che i discorsi che circolano determinandoci in quel che siamo e pensiamo, portano con sé effetti determninativi attraverso la loro funzione di veridizione, determinando ciò che consideriamo come vero.
Ma ora bisogna circoscrivere questi “quanto detto”. Se finora abbiamo delineato la struttura astratta della questione, il filosofo di Poitiers ci indica anche il fatto che, la “forma” in cui riconosciamo noi stessi in occidente – in cui “ci” pensiamo – deriva principalmente da quell’evento che irrompe nella storia chiamato Cristianesimo. Cosa significa? Che la cultura cristiana ad un certo punto del tempo “vince” sulla grecità, e impone – attraverso tecniche precise – un modo di intendere il soggetto come dotato di interiorità, cosa che “l’uomo greco invece non possedeva”. Si dirà: ma tutti hanno un’interiorità in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo. Già. Eppure, non è così.
È nelle prime comunità cristiane, infatti, che si è scavato, secondo Foucault, quello spazio che conosciamo ancora oggi come interiorità, attraverso una pratica che consociamo tutti, quella della confessione, che nei primi secoli dopo Cristo era chiaramente abbinata alla  penitenza. L’autore stabilisce la genealogia del nostro “pensarci” come loghi di interiorità (in cui risiede la verità) in queste tecniche di ispezione alla ricerca della colpa e del peccato da parte dei monaci cenobiti, che avveniva attraverso e l’ideazione di uno spazio dell’anima che viene “presa” dalle passioni della carne (peccati), e la conduzione del “confessore” che ha il potere di esplorare, interrogare, e irrogare la penitenza in vista della redenzione e della salvezza.[1]
Come si vede, una tecnica funzionale e strettamente legata al suo scopo: ottenere l’ubbidienza per redimere il peccato e avere la salvezza: un discorso che definisce il suo oggetto (sapere) – cioè l’interiorità – e lo ha indicato come luogo in cui esiste una verità da scoprire, per determinarne il destino (potere).
L’apertura di questo spazio dell’interiorità – come detto assente dalle rappresentazioni e dalle pratiche nel precedente periodo ellenico -, questo modo di intendere l’anima come oggetto di conoscenza, come luogo in cui risiedono i pensieri che devono essere verbalizzati per essere interpretati – è un postulato oggi “generalmente accettato nelle società occidentali”. Oggi “per la propria salvezza, ciascuno ha bisogno di conoscere il più esattamente possibile chi è, e inoltre […] deve dirlo il più esplicitamente possibile ad altre persone”.[2]
È su queste basi poi che le scienze moderne faranno del soggetto un luogo che Foucault non esista a definire “un’ontologia selvaggia”, cioè un luogo di sapere, che lo identifica sempre di più alle categorie scientifiche, lasciando poco spazio alla propria autonoma determinazione.
Ma c’è un passaggio intermedio che vorrei ancora considerare. Il soggetto moderno oggi è il soggetto di conoscenza dell’io penso quindi sono di Cartesio. Che cosa vuol dire? Detto in parole semplici: io penso quindi sono significa identificare il pensiero con l’esistenza stessa di me stesso. Certo è molto convincente. Ma, sempre secondo Foucault, anche questo che è il fondamento del cogito cartesiano non è una verità assoluta, a cui si sarebbe prima o poi arrivati “scava scava” come a una pepita d’oro nella miniera incantata. Una base naturale di noi stessi, diciamo. L’Io cartesiano, della filosofia moderna e dunque anche quello delle scienze umane, è considerato da Foucault come un “effetto del discorso”, ma soprattutto come frutto di una trasformazione spirituale, quale quella intrapresa dal filosofo de Le Meditazioni, ovvero esercizi ascetici inscritti nella tradizione filosofica occidentale (dunque greca): cioè la ragione e la sua argomentazione razionale.
L’effetto di questa potentissima argomentazione della “ragione” è stato quello che l’“io” è diventato anonimo, e proprio per questo “esistente in tutti”, cosicché tutti possono abitarlo. Noi oggi non facciamo difficoltà a pensarci come “Io”, a differenza dei greci che, secondo Jean Paul Vernant,[3] si pensavano esattamente all’opposto, come un “Tu”, perché la loro esperienza di se stessi era di “estroversione” – extraverti. Una bella differenza. Ma cosa ancor più straordinaria è rappresentata dal fatto che, lo sforzo di Cartesio per pervenire a questa “assunzione” non necessita da parte nostra, talmente è pervasiva l’argomentazione, di intraprendere una trasformazione di noi stessi per considerarci come “io”. Ma, a ben vedere, l’Io che pensiamo di avere per ritenerci esistenti, elude costantemente il riferimento da cui è nato – cioè la sua origine storica – ovvero da dove nasce: quel “quindi” (razionale) tra l’”io penso” e il “sono”.[4]
Questo traguardo della ragione non verrà messo in discussione, sarà ritenuto cioè “vero”. È questo effetto di potere che possiamo definire “processo di soggettivazione della verità”. Il soggetto moderno è dunque assoggettato a un a un regime di verità. Infatti, oggi, chiunque non si riconosca nell’io penso quindi sono può essere definito folle. Ma è questa un’operazione tipica della “ragione” – lo ribadiamo: da cui emerge l’Io moderno -, che si costituisce a partire da ciò che ritiene altro da sé, definendolo come “sragione”. L’aver ragione della ragione è un meccanismo che costituisce prima tutto ciò che è altro da se (la sragione) e solo dopo ne può parlare, senza però dire perché “lei” è la verità…
Vedere il soggetto come un effetto di un discorso di verità, di superfice con Deleuze, Nietzsche, e lo stesso Foucault, equivale a sottolineare che non esiste un’interiorità in cui sprofonda la verità, è tutto esteriorità – anche i nostri pensieri (perché dovrebbero essere più veri se considerati interiori?). E non esiste una verità a cui assoggettarci. Potremmo semplificare tutto il discorso così: io non sono il mio pensiero, ma ciò che faccio con esso, incontrandolo… Io sono una “cosa” che incontra il suo pensiero…
Con questo esercizio, archeologico e filosofico di noi stessi, Foucault ci permette di passare da un soggetto che fonda se stesso nella ragione come verità, ad un altro che guarda la verità come produzione essa stessa, come effetto, e quindi anche a un soggetto che trasforma se stesso attraverso l’uso della ragione, ma non in rapporto ai suoi limiti – dati dal sapere che lo costituisce e dal potere che lo determina – ma proprio a partire da questo rapporto ci conduce a “pensare”  al superamento di questi stessi limiti, nel quadro di una verità che sa’ essere sempre storica. La trasformazione di noi stessi, dunque, comporta innanzitutto trasformare il tipo di esperienza che facciamo della verità, provandolo sulla nostra pelle. Ecco perché da qui possiamo dare un’importanza enorme non tanto a ciò che “siamo” ma a ciò che “facciamo”, dunque all’ethos.

[1] M. Foucault, Sull’origine dell’ermeneutica del sé, Cornopio, Napoli, 2012, p. 33
[2] Ivi, p. 33
[3] Vernant, J. P., L’uomo Greco, 1997, Laterza
[4] Daniele Lorenzini, Philosophical Discourse and Ascetic Practice: On Foucault’s Readings of Descartes’ Meditations, Theory, Culture & Society, January 14, 2021

TAG: Filosofia, Michel Foucault, soggetto, trasformasi, trasformazione, verità
CAT: Filosofia

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