Il TPP visto dall’Australia

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13 Ottobre 2015

La notizia del momento, proveniente dal pacifico, è senza dubbio la fine dell’estenuante negoziato del TPP, il trattato Trans Pacific Partnership. Negoziato durato ben otto anni e condotto dai tecnici di 12 economie che si affacciano sul Pacifico: USA, Canada, Messico, Cile, Perù, Australia, Nuova Zelanda, Vietnam, Malaysia, Giappone, Brunei, Singapore. Le 12 economie hanno raggiunto un accordo storico che abbatte definitivamente tariffe e barriere non tariffarie. Ma cominciamo con lo sgomberare il campo dagli equivoci: il vero obiettivo dell’accordo non erano i dazi doganali (peraltro già molto bassi), ma qualcosa di molto più significativo.

L’ambizione, dell’amministrazione Obama che ha spinto per questo importante risultato, è quella di fissare gli standard del commercio globale del futuro. Standard in materia di impatto ambientale, di diritto del lavoro e di proprietà intellettuale. Per chiarire: chi aderisce dovrà adottare gli standard dell’Organizzazione mondiale del lavoro, recepire il trattato contro il commercio di specie protette e limitare i sussidi alla pesca. Vietnam e Malaysia dovranno da subito adeguare il loro diritto del lavoro e così dovrà fare chiunque voglia unirsi al sistema in futuro.

Lo stallo e sostanziale fallimento degli ultimi round di negoziati WTO ha convinto tutti gli attori in gioco della necessità di accordi regionali e più limitati. Ecco che, nella strategia di spostamento della politica estera americana dall’atlantico al pacifico, questo rappresenta un tassello cruciale. Una mossa che, senza dichiararlo, isola i colossi Cina e India e mira costringerli ad accettare, prima o poi, di entrare nel TPP. Ma alle condizioni fissate oggi dai principali attori del sistema: Washington, Canberra e Tokio. Si è detto che il TPP è il gemello del TTIP, il negoziato in corso tra USA e UE. Lo è probabilmente per gli obiettivi, ma non per l’importanza strategica. Il TPP copre già adesso  il 40% del PIL mondiale, a cui potrebbero presto aggiungersi anche altri paesi come Corea del Sud, Taiwan, Thailandia, Colombia e Filippine. Stiamo parlando quindi di qualcosa di molto più rilevante del gemello atlantico, anche in termini demografici. L’esito di questo negoziato sicuramente influenzerà il gemello atlantico.

L’amministrazione Australiana ha sempre visto con favore l’accordo, ma ha manifestato perplessità su alcuni temi: la copertura brevettuale dei biologics (farmaci), che negli USA arriva a 12 anni. L’Australia ed altri partner, che prevedono coperture brevettuali sensibilmente più brevi, temono che l’armonizzazione verso l’alto spinga in alto anche i prezzi. Anche Medecins sans Frontieres ha espresso contrarietà. Mentre Hillary Clinton, in piena campagna elettorale, ha manifestato timori invece opposti: l’armonizzazione verso il basso metterebbe a rischio le Big Pharma e i posti di lavoro americani. Gli americani temono infatti la concorrenza dei grandi produttori asiatici di generici.

Altra questione controversa, presente anche nel negoziato tra USA e UE, sono i cosiddetti ISDS (Investor-State dispute settlement), che permetterebbero alle multinazionali di citare in giudizio degli stati, presso tribunali indipendenti e sovranazionali. Big Tobacco ha in corso una battaglia proprio con il Governo australiano per la pubblicità e i logo sui pacchetti delle sigarette, cosa accadrebbe col nuovo accordo ? Il diritto dello stato sovrano, di un governo democraticamente eletto soccomberebbe di fronte al diritto del grande investitore di veder tutelato il proprio investimento ? La questione ha fatto dibattere molto a lungo e per risolvere l’impasse si è stralciata l’industria del tabacco dall’accordo. Per il momento. Del resto la questione ISDS è quella che più scatena opposizione anche in Europa.

Tra i vincitori di questa partita ci sono sicuramente i colossi della new economy: non avranno più obbligo di localizzare server e immagazzinare dati su base locale, potranno tranquillamente gestire tutte le operations dalla Silicon Valley. Anche il vasto settore agricolo australiano è tra i vincitori, ma non nella misura sperata. I mercati nord americani mantengono ancora barriere non tariffarie all’invasione di carne, latte, lana e cotone da Australia e Nuova Zelanda. Il gigante neozelandase del latte, Fonterra, che è il primo esportatore mondiale di prodotti lattiero-caseari continua infatti a lamentare la scarsa apertura di Canada e USA.  La grande finanza anglosassone invece, sia nordamericana che Australiana e Neozelandese avrà accesso più facile ai mercati asiatici.

Ma il futuro del trattato è assai incerto comunque: dovrà passare al vaglio dei parlamenti ed essere ratificato. Solo negli USA che ne sono gli ispiratori, troverà opposizioni da destra e da manca. Donald Trump lo ha bollato come nefasto, Bernie Sanders nocivo per l’ambiente e i lavoratori USA, della Clinton abbiamo già detto e la stella nascente democratica Elizabeth Warren ha giurato fiera opposizione. Ci sono poi settori industriali e agricoli di ogni genere (automotive, industria del latte neozelandese, produttori giapponesi di riso, di cereali canadesi e molto molto altro) in totale subbuglio, che faranno sicuramente sentire la loro voce prima di ingoiare cambiamenti epocali.

I termini e i dettagli dell’accordo, negoziato in segreto da tecnici inviati dai 12 governi , saranno resi pubblici entro un mese. Da lì in poi inizieranno le vere battaglie politiche nei singoli stati e parlamenti. Possiamo stare abbastanza sicuri che il trattato subirà molte e significative modifiche prima di entrare in vigore.

TAG: Australia, commercio internazionale, TPP
CAT: Geopolitica

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