Dove finisce Milano – L’economia di successo di un mondo a parte

8 Maggio 2024

“Dove finisce Milano” è un podcast originale di Jacopo Tondelli, prodotto dal Centro Martini nell’Università Bicocca, che ogni settimana vi arriva grazie alla voce di Federico Gilardi. Nella scorsa puntata, intitolata “La Capitale degli stranieri”, abbiamo analizzato i dati della presenza immigrata a Milano, che fanno della città quella più densamente popolata da stranieri in tutta Italia. Con oltre il 20% di residenti stranieri, infatti, Milano si attesta ben oltre il doppio rispetto alle media nazionali, inferiore al 9%. Come spesso capita, i territori a più alto tasso di immigrazione economica sono quelli caratterizzati da maggiori opportunità di lavoro. Il Prodotto Interno Lordo e il reddito medio sono indicatori che possono aiutarci a capire il cammino dell’economia milanese in relazione a quella nazionale ed europea. Qui sotto potete ascoltare e leggere la prima parte di un (lungo) viaggio nell’economia del capoluogo lombardo.

Nel 2000 – alla vigilia dell’entrata in vigore dell’Euro e della crisi economica e geopolitica globale seguita all’11 Settembre – il Pil pro-capite italiano era del 22% più elevato rispetto alla media europea. Quasi venticinque anni – dopo molti allargamenti dell’Unione, pandemie e guerre – il Pil procapite italiano è di qualche punto percentuale sotto la media europea. Quello di Milano, no, continua ad essere lievemente sopra la media europea, e sensibilmente sopra la media nazionale. Vale lo stesso per il reddito medio, che a Milano secondo le statistiche è tra il 20% e il 30% più alto che nel resto dell’Italia, e arriva a rappresentare un multiplo di 4 o 5 volte se prendiamo a riferimento aree ad alto tasso di disoccupazione, come molte città di provincia del centro-sud. Questa tendenza ha radici profonde e lontane nei decenni e perfino nei secoli, da ben prima che l’Italia fosse uno stato unitario. Se vogliamo però prendere una “data di partenza” a noi più vicina, possiamo far iniziare la nostra storia con l’emigrazione di massa dal Mezzogiorno verso le grandi aree industriali del Nord nel Secondo Dopoguerra. Le mete principali erano le fabbriche della Fiat e del suo indotto a Torino, e gli insediamenti industriali attorno a Milano. La fine dell’industria automobilistica in Italia e l’incapacità di dare un volto nuovo Torino e alla sua economia hanno ulteriormente polarizzato gli investimenti e gli insediamenti produttivi su Milano, accelerando ulteriormente la distanza tra la città e il resto del paese. L’economia immateriale e dei servizi – finanziari, legali, sanitari della comunicazione e del marketing – ha costruito in Milano le caratteristiche tipiche della “città globale”, a cominciare dai suoi indicatori economici. La tendenza, per paradosso, è apparsa particolarmente chiara attorno a una vicenda spartiacque, eppure già rimossa e dimenticata, come quella della pandemia da Covid-19. All’esplodere della pandemia, quando i suoi effetti erano già stati sperimentati solo in Cina e in Lombardia, Milano finisce sulle prime pagine dei giornali di tutto il mondo. Piazza Duomo deserta, ad esempio, è sulla copertina del Wall Street Journal, per spiegare alle piazze finanziarie di tutto il mondo cosa sta per succedere ovunque, e cosa è successo alla capitale della moda e del design. Sembra l’inizio della fine, un crollo di immaginario e un cambiamento di gusti e costumi. In parte forse lo è anche. Ma i dati economici mostrano la notevole resilienza – il sostanziale privilegio – di Milano rispetto al resto d’Italia. Il Pil procapite del 2020 cala della metà, rispetto alla media nazionale. La ripresa post pandemica, invero trainata da un mercato immobiliare fuori controllo ma anche da un sistema produttivo post industriale e quindi particolarmente portato al lavoro da remoto, è sensibilmente più marcata rispetto al resto del paese. Quando riprendono eventi, viaggi e turismo, Milano è semplicemente presa d’assalto da milioni di persone che sembrano in crisi d’astinenza dalle opportunità relazionali alle quali erano assuefatti. Il resto lo fanno i risparmi accumulati durante i lunghi mesi a scartamento ridotto da una città abituata a spendere molto, e impossibilitata a farlo per un tempo che sembrava inimmaginabile. Il resto è tutto attorno a noi: una città che, complice l’inflazione del post-Covid, sembra appunto diventata impossibile per chi ha redditi “normali”, perfino più di prima.

Questa tendenza cittadina rispecchia, invero, quel che succede in tutte le città attrattive del mondo e di Europa, quelle che Richard Florida chiama Alfa City, indicando con questa definizione le città che sono nodi nella rete globale, per spiegare che sono crocevia di commerci e investimenti e opportunità
Fatte le proporzioni con tendenze storiche e costi della vita, quel che succede a Milano – le curve economiche che la definiscono, la riassumono – somiglia molto a quel che succede a Parigi, a Londra, a Berlino, a New York. Città nelle quali la distanza economica, sociale, antropologica e in definitiva di sensibilità politica dal resto del paese cresce a dismisura. È un modello che finisce col far pensare a chi sta dentro di essere in un fortino di benessere e “civiltà”, e chissenefrega di chi sta fuori. Ovviamente, oltre che sbagliato, è un modello impossibile. Ma come fa chi sta dentro a starci, appunto, dentro? Che lavori fa, come si mantiene? E come fa a starci chi consente ai milanesi di vivere in una città, di mangiare, di curarsi? Il nostro viaggio nell’economia milanese non è ancora finito, anzi. Nella prossima puntata viaggeremo nel mondo del lavoro milanese. Cercheremo dati e storie per provare a capire se è ancora vero – come recitava l’antico detto locale – che chi volta le spalle a Milano volta le spalle al pane.

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