“Maader Folk” e i nuovi spaesamenti: intervista a Davide Van De Sfroos

1 Gennaio 2022

Questo è l’incipit che, qualche anno fa, avevo scritto per introdurre la recensione a Taccuino d’ombre (La Nave di Teseo, 2019), il libro di racconti di Davide Van De Sfroos e dove avevo provato a raccontare cosa è lui, per me e per molti. Voglio riportarlo in apertura a questa intervista, continuando a ritenere quelle parole le più vicine a quello che Van De Sfroos rappresenta, per me e per molti.

 

Una premessa è doverosa: per chi, come me, vive la vicinanza al lago di Como e alle sue storie, Davide Van De Sfroos è qualcosa di intoccabile, una voce e una penna a cui tutti noi ci sentiamo un po’ debitori e molto riconoscenti per aver saputo intrappolare, senza morsa, luoghi, ricordi, odori e personaggi che il susseguirsi dei tempi e dei linguaggi avrebbe altrimenti fatto sbiadire.

Nelle sue canzoni e nei suoi racconti Davide dona e si dona, anteponendo il vivere di una comunità al proprio ego, che si fa funzionale alle narrazioni scritte e cantate, dimostrando un amore smisurato per spazi e dimensioni cronologiche, vite ed esperienze che dalla loro piccola unicità diventano rappresentazioni iconografiche potentissime ed eterne. Ritrovare le proprie radici, insieme a una visione ancestrale del mondo non scelta ma toccata in sorte, sedimenta un senso di appartenenza e di connotazione identitaria insostituibile e introvabile altrove; e chi di questa realtà non fa parte, non solo attraverso la produzione di Davide può conoscerla nella sua dimensione più genuina e autentica ma, fuoriuscendo dalle logiche territoriali, può scoprire una voce autorale unica e rara in grado di restituire, con le parole e la musica, vere e proprie visioni e viste di scenari interiori ed esteriori.

 

Maader Folk, titolo del tuo ultimo album uscito lo scorso 17 settembre, prende spunto da una rassicurante figura femminile multietnica – come tu stesso hai raccontato – che ti compare in sogno durante una notte febbricitante per via del Covid e che ti dice di stare tranquillo e di rimanere legato al folk, cioè alle tue radici. In effetti questo tuo lavoro si muove tutto tra il punto di partenza, il viaggio e la meta da seguire; meta sempre più incerta, difficile da mettere a fuoco. Non a caso, nel primo singolo estratto, Oh Lord vaarda gio, proposto in collaborazione con Zucchero e con Mauro Corona protagonista del video, c’è l’invocazione, rivolta a qualcuno che sta sopra di noi, a indicarci la strada.

Ti chiedo: in una società che tende a reificare anche i rapporti umani e che appiattisce tempi e spazi su una sottile linea retta, in che modo possiamo trovare la forza di appellarci a qualcosa che ci trascende, indipendentemente da cosa esso sia? In che modo le nostre origini possono essere guida per farci uscire dallo spaesamento e non corda avviluppata che ci strozza e ci trattiene?

Mi piacerebbe avere risposte o soluzioni in merito da consegnare al mondo ma ovviamente ho soltanto sospetti, emozioni, dubbi e sensazioni. Fin da tempi lontanissimi abbiamo sentito dentro di noi la necessità di uno sguardo verso l’infinito, verso l’assoluto, cercando di andare oltre con la preghiera o con la meditazione, con l’immaginazione e con la creatività, ma spesso questo oltre ci siamo resi conto di contenerlo noi stessi nelle profondità misteriose del nostro spirito.

Inondati di notizie e di nozioni scientifiche, travolti dalla velocità e dalla voracità del nostro tempo sembriamo distaccati dalla sfera mistica, ma in realtà viviamo nell’era in cui ne abbiamo più bisogno. Siamo diventati furbi, saccenti e spesso arroganti nei confronti dell’universo, ma è sufficiente rallentare un minuto per capire di essere dei naufraghi senza una guida o un punto di riferimento; la quotidianità ci sembra spesso fin troppo normale e quasi banale. E questo sguardo distratto ci priva della consapevolezza di vivere ogni giorno dentro svariati miracoli, ci toglie il divino stupore degli antichi sciamani, ci rende come criceti in una gabbia a correre su di una ruota che non porta da nessuna parte.

Non importa di che fede tu sia e che tipo di credo tu segua o non segua: Oh Lord vaarda gio è il tentativo libero di ritrovare una via o un modo di interpretare la vita, la richiesta a una forma di energia spirituale superiore, un supporto o una minima segnaletica per capire meglio le direzioni del viaggio e non certo la pretesa di attivare una divinità interventista che risolva i problemi al nostro posto. Quando scrissi questo brano, più di dieci anni fa, sentivo fortemente il bisogno di richiedere un aiuto. La canzone è rimasta nel cassetto tutto questo tempo e neanche a farlo apposta eccola qui, proprio in questo momento nel quale è il mondo stesso ad avere la necessità di una guida o di un conforto.

 

E sémm partíi, titolo di un tuo pezzo e album precedente. Il sogno dell’America, cioè il sogno di ciò che pensiamo grande e bello, di ciò che vorremmo raggiungere e che cerchiamo, in tutti modi, di tenere tra le nostre mani, nonostante le difficoltà, le fatiche, i dispiaceri. Il sogno di chi guarda al futuro, del figlio che lascia la casa del genitore per trovare sé stesso. Hemm Imparaa, invece, una delle canzoni di Maader Folk, continua il dialogo generazionale negli occhi di un nipote che ripensa agli insegnamenti e al modo di vivere del nonno, provando a contestualizzarlo dentro un mondo troppo cambiato, nel quale i pezzi del puzzle di ieri fanno fatica a ricomporsi.

È possibile trovare una conciliazione tra quello che è stato e quello che è? Siamo in grado di reperire o inventare un linguaggio comune che ci permetta di comunicarci, ascoltarci, capirci?

Siamo figli e padri del nostro tempo. Ci siamo raffinati e sofisticati, ci siamo evoluti e ci si sforza spesso di essere migliori e più civili, più aperti e meno ottusi, più tecnologici e più saggi. Eppure c’è ancora tantissima brutalità, violenza, intolleranza e cattiveria gratuita generata dalla rabbia eterna che alberga in noi nel momento in cui siamo disorientati. Si partiva e si andava lontano in cerca di fortuna o di una nuova vita, molto spesso per rimpiangere poi quella che avevamo lasciato a casa.

Ho conosciuto persone che sono cresciute studiando e che hanno poi occupato le alte sfere sociali, costruendosi un baluardo economico invidiabile, andando a vivere nelle grandi città con ogni tipo di agiatezza; ma alcuni di loro, spesso troppi, li ho visti poi ritornare al paese a ristrutturare la cascina del nonno per rifugiarsi nella semplicità perduta almeno da pensionati.

Continuiamo a sommare cose e ad addizionare e a moltiplicare, ma in realtà credo che sia la sottrazione quello di cui la nostra vita necessiti. Su di un tavolo con troppi oggetti non trovi più le chiavi di casa. Su di una lavagna con troppe scritte non vedi il puntino bianco disegnato col gesso, che scoveresti subito se la lavagna fosse totalmente nera.  Il giovane della canzone riflette osservando la perplessità del nonno nei confronti del cambiamento, cambiamento che abbiamo imparato ad accettare senza troppi drammi, perché ci si abitua a tutto. Ma non per questo si smette di dubitare dell’integrità del nostro futuro o della validità di certe scelte esistenziali. Il tempo ci arriva incontro come un toro che non riusciamo più a fermare, ma noi avremmo bisogno di un cavallo su cui poter montare senza venire disarcionati.

Moderno non vuol dire sbagliato sia chiaro, ma qualche volta bisognerebbe recuperare dal passato ciò che ci ha permesso di arrivare fino ad ora e avere il coraggio di sottrarre e di rallentare.

Tra le parole chiave evidenziate dalle ricerche per sintetizzare i vocaboli che maggiormente gli italiani hanno usato e usano per provare a definire la sensazione prevalente avvertita nel post-pandemia – se di post si può parlare – c’è “spaesamento” che, in prima battuta, definisce lo stato del contadino giunto in città e, quindi, senza paese, senza comunità, senza famiglia, senza la propria identità.

Chi sono Gli spaesati che danno nome a una delle canzoni di Maader Folk? Dove stanno andando? Cosa hanno da dirci?

La prima volta che ho riflettuto sul concetto di “spaesati” in senso sociale mi trovavo in Valtellina con il famoso sociologo Aldo Bonomi che mi illustrava alcuni concetti interessanti sulle popolazioni dei nostri paesi. Nella notte mi sono svegliato pensando a tutto quello che mi aveva colpito e alle quattro del mattino ho scritto la canzone spedendo poi il testo ad Aldo, per capire se avevo compreso correttamente il concetto e se il brano nella sua forma semplice e diretta potesse essere un manifesto sociologico sensato e alla portata di tutti. Mi diede la sua benedizione ed eccolo qui nel disco.

Usiamo spesso il termine “spaesato” per indicare qualcuno che non si ritrova o che è confuso, ma come giustamente hai sottolineato esiste anche un altro significato che è quello della sottrazione di quel paese che prima c’era e ora si fa fatica a ritrovare dopo il cambiamento nel corso del tempo. Nonostante ciò, alcune persone non hanno voluto cambiare i modi di vivere o le abitudini, il tipo di lavoro che secondo la maggioranza può risultare ormai desueto o folkloristico. La canzone restituisce loro quella dignità che si meritano e cerca di fare comprendere anche l’importanza di questo popolo apparentemente nascosto e anacronistico, che potrebbe rivelarsi però un esercito di custodi importanti di quella memoria che sarebbe drammatico perdere.

Ci sentivamo forti e intoccabili, sovrani assoluti di questa terra, ma è bastato un ospite invisibile per metterci in ginocchio e trasformarci in prigionieri di noi stessi.

Anche ora ci sentiamo nonostante tutto, connessi, sintonizzati e sincronizzati vivendo su di una piattaforma virtuale, socializzando a distanza, trasmettendo e ricevendo dati e notizie alla velocità della luce, ma se la luce dovesse venire a mancare per qualche motivo, il nostro sistema tecnologico crollerebbe come un castello di carte. Quello degli “spaesati” probabilmente no.

Nei tuoi album le figure femminili sono sempre scritte e cantate con grande intensità; sono persone multisfaccettate, capaci di gesta e gesti di straordinaria profondità, hanno luci e ombre, hanno vita che straborda, riescono ogni volta a insegnarci qualcosa.

Agata, ad esempio, ci parla della capacità di amare oltre le distanze imposte dallo spazio e dal tempo, oltre i drammi e il peso della Grande Guerra; Agata diventa il simbolo della resistenza femminile al peso del mondo, alle fatiche quotidiane.

Cosa viene chiesto ad “Agata” oggi? Quali fascine di legna deve ancora portare sulle spalle?

Il pianeta Donna è complesso, potente, simbolicamente solenne e magico. La Madre, l’origine della vita, la terra, la natura.

È la donna che si deve aprire e che deve accettare in sé il mistero della vita ed è lei a doverlo custodire e nutrire portandolo fisicamente in grembo.

Gli uomini vengono spesso indicati come il sesso forte, ma di certo non direi mai che le donne siano il sesso debole.

Nelle mie canzoni questa forza femminile capace di colpire come un fulmine nel centro è stata sempre celebrata e non può in nessun modo essere ignorata.

Agata è una canzone simbolo, che non vuole solo celebrare le donne dei tempi passati, costrette dalle circostanze a essere madri e padri al contempo, facendo i lavori più duri con il peso non soltanto sulle spalle ma anche nel cuore mentre attendevano il ritorno di un figlio, di un parente o di un compagno; Agata è senza data di scadenza e sottolinea la forza e gli sforzi anche delle donne della nostra epoca, che nonostante l’emancipazione e la dimostrazione concreta di poter rivestire qualsiasi ruolo, devono ancora portare il peso dell’essere donne, del subire violenze o soprusi, del dovere sopportare discriminazioni e atteggiamenti irriverenti, scalando le vette dell’ignoranza e nuotando in una palude di luoghi comuni stagnanti.

Il fardello di tante donne sarà sempre prezioso e pesante perché ci si aspetterà sempre da loro il fascino della femminilità, la dolcezza, la raffinatezza, l’amore materno, la sensualità e l’integrità; ma nel mentre dovranno essere anche guerriere, amazzoni, lavoratrici in miniera giù nelle profondità spietate di questa società, per portare poi in superficie un diamante da portare al collo con orgoglio.

Anche il titolo del disco e la copertina sono vistosamente dedicati all’importanza della donna nel mio universo personale.

Che orma pensi possa lasciare Maader Folk sulla strada della musica e della vita? Quale suono la accompagna a la identifica?

Io spero vivamente che questo disco, che tanto ha dovuto attendere, possa essere d’aiuto in senso emotivo e possa essere buona medicina per chi avrà voglia di ascoltarlo. I commenti devo dire che sono stati entusiasti e mi ha fatto molto piacere che sia stato compreso esattamente nei suoi messaggi, ma la cosa che mi rende più felice è sentire dire da molti che questo album li aiuta nella loro giornata e li fa stare bene.

 

Davide Van De Sfroos

Davide Van De Sfroos

TAG: Davide Van De Sfroos, intervista, Maader Folk, Mauro Corona, Musica, Oh Lord vaarda gio, Zucchero
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