Da Cechov a Ionesco, cronache teatrali da Milano

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19 Gennaio 2016

Ci sono cene, dopo teatro, che possono diventare “puro Ionesco”. E nella foga di dire qualcosa, si finisce per non capire più se i complimenti siano diretti all’attore della serata, al ricordo di uno spettacolo passato, o al cameriere che ha appena preso l’ordine.

E proprio di Ionesco, prima di uno di questi talk dinner, si è vista fino al 17 gennaio La lezione al Teatro Verdi, con la tesa regia di Valerio Binasco. Qualche anno fa mi capitò una Leçon al Théâtre de la Huchette – sala mignon parigina in pieno Quartiere Latino – che seguiva una delle migliaia di recite della Cantatrice chauve, spettacolo ospitato in teatro dal 1957 quasi tutti i giorni, con curiosa assenza di guinness, viste le oltre diciassette mila recite. Tradizionalmente prevedibile, la regia francese si accontentava di esporre la comicità allitterante e onomatopeica del testo originale, chiuso da Ionesco riproiettando i personaggi nella situazione di partenza – ogni cosa deve ripartire.

Ma l’atmosfera surreale è ricreabile dalla regia anche senza questa circolarità, senza che gli estremi si tocchino in un giro a vuoto. Binasco quindi vi rinuncia per dare spazio nel finale a un gioco messo in scena dal professore di Enrico Campanati che, spalle al pubblico, maneggia alcuni scatti incorniciati di dittatori e bombe atomiche. È il male privato che si fa pubblico, l’assurdo della quotidianità che finisce per sfogarsi finché «la Terra, ritornata alla sua forma nebulosa, errerà nei cieli, priva di parassiti e di malattie», direbbe Zeno alla sua coscienza.

Difatti il professore del testo, al termine della lezione, uccide la sua allieva. Campanati, eccezionale, è sopra le righe fin da prima che cominci il delittuoso appuntamento, ed è credibilmente fuori di testa al momento dell’accoltellamento della studentessa cretina, che non sa seguire le sue speculazioni fino all’ovvia conclusione per cui “Italia” in francese si deve dire “Francia”.

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Le lezione, Teatro Verdi.

Altro cambiamento di finale al Piccolo Teatro Studio Melato, dove fino al 24 gennaio va in scena Gabbiano di Cechov, con regia di Carmelo Rifici che, oltre ad amputare l’articolo nel titolo, sostituisce a un suicidio un omicidio. Ma nelle commedie di Cechov non si muore mai per mano altrui: anche zio Vanja sbaglia mira quando spara al professore. Rifici invece chiude il dramma con Kostja che stende un sudario rosso sul corpo di Nina, per poi ricomparire tra gli altri personaggi dopo lo sparo che secondo copione dovrebbe ucciderlo. Ma così è rovinato l’effetto della conclusione, in cui Dorn nasconde a Irina la morte del figlio: «Niente, cosa volete che sia? È scoppiata una boccetta di etere».

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Gabbiano, Piccolo Teatro. Foto di Masiar Pasquali.

Eppure, nonostante questi imprevisti colpi di scena, l’articolazione della regia ha poco di inconsueto, e non corrisponde all’originalità dell’intuizione scenografica. I personaggi infatti camminano su una pedana che dà a ognuno un riflesso acquatico: il lago che fa da cornice alla commedia è straripato, entrando in questo salotto di campagna per ovattare tutte le relazioni. Perché sono tutti – forse eccetto Kostja – personaggi inconsistenti che si reggono soltanto su sentimenti ossessivi, proiettati a domino l’uno sull’altro. Giustamente Woody Allen prende in giro queste catene di amori e disamori nel finale di Amore e guerra, in cui Diane Keaton si irrita di fronte all’elenco della cugina Natasha, riassumibile nell’affermazione sconsolata ormai divenuta immortale: «La ditta Myskin&Myskin va a letto con la ditta Paskov&Paskov».

Eppure dalla recitazione non emergono quei caratteri ectoplasmatici che vorrebbe invece la scena astratta, così suggestiva, di Margherita Palli, decorata con delicati gabbiani di cartapesta: penso servisse piuttosto un lavoro di sottrazione sugli attori, i quali tendono invece a dare sempre di più atto dopo atto, pur con ottime qualità, in particolare la madre Irina di Giorgia Senesi e il figlio Kostja di Emiliano Masala. Efficace l’accompagnamento musicale di Zeno Gabaglio, l’operaio Jakov che, dopo le sue poche battute, si mette al violoncello per accompagnare le pazze vicende del testo. Infine mi è parso troppo didascalico il piano inclinato dell’ultimo atto, simbolo semplificato di ogni nostra irreversibile mancanza di senso: i personaggi giocano al lotto e fanno rotolare i numeri su un tavolo sollevato da un lato.

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Gabbiano, Piccolo Teatro. Foto di Thinking Monkey Digital Art.

Infine per due sere – il 13 e il 14 gennaio – è apparsa al Teatro No’hma una raffinatissima performance di mimo: Houdini, l’arte della fuga, spettacolo con sottotitolo bachiano sulla vita del famoso mago ungherese naturalizzato americano. Sul palco Felipe Cabezas, quasi da solo – con lui anche Mara Lepore, con il suo cadenzato accompagnamento musicale  -, diretto da Berty Tovías sotto l’egida clownesca di Jacques Lecoq, nume tutelare del teatro fisico del novecento sul cui metodo Tovías ha impostato la sua scuola a Barcellona. Deflagrazione dei movimenti, maschere espressive: ogni cosa – eccetto la parola – contribuisce al racconto di una storia, e l’attore emerge nell’invisibile intersezione tra il burattino e il burattinaio.

Houdini

Houdini, l’arte della fuga, Teatro No’hma.

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