Doppio sogno di Rifici allo Studio Melato: in un moltiplicarsi di sogni proibiti

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8 Dicembre 2021

Al Piccolo Teatro Studio Melato, Carmelo Rifici mette in scena, a lungo e con 18 attori sul palco, Doppio sogno di Arthur Schnitzler: testo breve, iconico, intriso di psicanalisi e dramma borghese, scritto negli anni ’20 di una Vienna non più capitale asburgica, ancora centro mitteleuropeo, decadente, affascinante. Più di vent’anni fa Stanley Kubrick ne aveva tratto Eyes Wide Shut con Nicole Kidman e Tom Cruise.

C’è qualcosa di liberatorio, in questo invadentissimo e totalizzante presente, nell’immergersi in un mondo così distante. Già 18 attori sul palco (sono gli allievi della Scuola di teatro del Piccolo, di cui Rifici è direttore) e una programmazione di un mese, dal 27 novembre al 23 dicembre, sembrano parlare di epoche remote del teatro, ma è soprattutto l’abbandonarsi alla seduzione del desiderio e del proibito a portare lontano.

In quella Vienna decadente, Arthur Schnitzler raccontava di una coppia “disfunzionale”, come la definisce Rifici: Firdolin e Albertine si ritrovano a cena e accennano a una festa a cui sono stati la sera prima durante la quale si sono brevemente persi e ognuno è stato sfiorato da sconosciuti mascherati, innocenti evasioni, velati desideri. Qualche parola omessa o tesa, un leggero senso di colpevolezza e curiosità non sopite, la confessione di un desiderio estivo di Albertine, Fridolin chiamato a uscire nella notte per raggiungere il capezzale di un paziente malato. Così Albertine sprofonda in un sonno animato da sospetti, gelosie e pulsioni, trattenute e liberate, pensieri pensati, vissuti o sognati.
E Fridolin s’immerge in una notte d’incontri, un viaggio fra case di sconosciuti, amicizie di gioventù, feste in maschera, parole d’ordine, brame confuse, voci sfuggenti.

Nel Teatro Studio Melato sembra di stare dentro al sogno. Tutti gli attori sono Fridolin o sono Albertine, ognuno interpreta un lato, un aspetto, una voce dello stesso personaggio, o tutti le interpretano tutte, si è lentamente trasportati nella Babele del doppio sogno, i volti si confondono ai nostri occhi come si confondono agli occhi di Fridolin. Le coppie di Fridolin e Albertine si alternano e sovrappongono e specchi tutt’intorno ribadiscono il tema del doppio rifrangendo all’infinito la scena.
La platea è così vicina che gli attori mascherati o incappucciati ti guardano negli occhi, se ne sente il calore: al momento della festa, fra gaupière e autoreggenti nere, vestaglie rosse, corpi nudi che si sfiorano, toccano e mescolano, si perde il senso della distanza, non c’è voyerismo perché si è dentro la scena, e la platea è illuminata, le espressioni e gli sguardi del pubblico posati su ventri e gambe sono in scena anch’essi, immersi nell’atmosfera onirica e sensuale, cullati da voci femminili che cantano dance me to end of love, e si è quasi lì.
Si potrebbe accusare quell’immagine di essere stereotipata, ma è così simile al sogno.

Si moltiplicano anche i piani di lettura e certamente c’è tanta psicanalisi: tutto questo “sogno” viene infatti raccontato, nello spettacolo, a un collega di Fridolin di nome Adler che chiude lo spettacolo affermando che “Nessun sogno è completamente un sogno”.

Quando si esce da lì, dopo essere stati per tre ore lontani da questo invadentissimo e totalizzante presente, di certo si ha un po’ l’impressione di aver sognato, e di portarsi però dietro qualcosa – come dai sogni più vividi – che sconfina nella veglia. Nella scheda tecnica, Rifici spiega di aver scelto questo testo perché tratta i “temi del rapporto di coppia, della gestione della violenza all’interno delle relazioni e della costruzione del concetto di identità attraverso il continuo ‘specchiarsi’ nell’altro […] Doppio sogno possiede un valore catartico che può essere utile a dei giovani per individuare modelli letterari che li aiutino a decifrare le proprie inquietudini personali”.
Ma quel che resta nella veglia, tornando a una gelida Milano, togliendo anche noi le mascherine, è il piacere seducente del segreto, di qualcosa che non è stato svelato, che mantiene un’ovattata ambiguità e ci lascia legati a quell’ultima frase, “Nessun sogno è veramente un sogno”. Non si sono consumati tradimenti, in fondo non è successo niente, è il proibito in quanto tale ad ammaliare, infondere vita, come un’allusione senza oggetto. Fra sensualità, calore, un torbido senso di sfuggevolezza, offuscamento e fantasie rimane questo velo sottile di mistero come possibile chiave d’interpretazione del rapporto di coppia, delle relazioni, del rapporto stesso con la realtà.

TAG: Arthur Schnitzler, Carmelo Rifici, Piccolo di Milano
CAT: Teatro

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