Shakespeare glam: Sogno di una notte di mezza estate, regia di Filippo Renda
Londra 1977, siamo agli sgoccioli degli anni Settanta, gli anni del Punk, del Glam, dell’Art Rock e della contestazione. La radio trasmette God save the queen dei Sex Pistols, i ragazzi suonano nei garage, organizzano performance improvvisate, tagliano, scuciono, graffiano i loro vestiti smontando – letteralmente – l’aspetto ordinato dell’immaginario estetico inglese. Un’epoca di ribellione generazionale che proprio nell’arte trova il suo sbocco principale.
Un’arte fatta di fare, non importa se bene o male, non importa con quali conoscenze e capacità tecniche: ciò che conta è la volontà di esserci, di cambiare.
La società dei padri, che pure ha vinto la guerra, si sta sgretolando per mancanza di nuova linfa vitale. I giovani non si riconoscono più in un modello di vita che, dell’ordine fatto di lavoro, benessere borghese, famiglia e tradizioni, ha trovato la leva per un immobilismo sociale privo di spinta creativa.
In questo mondo trova la sua ambientazione contemporanea il Sogno di una notte di mezza estate, una produzione Elsinor Centro di produzione teatrale con la compagnia Idiot Savant che debutterà domani – 5 giugno – al teatro Fontana di Milano, per la traduzione, adattamento e regia di Filippo Renda. Si tratta di un lavoro che ha richiesto una lunga elaborazione, come ha sottolineato Renda nella conversazione da cui nasce questo pezzo per Gli stati generali, e oltre un anno di studio sul testo e sugli anni Settanta inglesi. Sogno di una notte di mezza estate rappresenta da sempre, nell’immaginario letterario, uno spazio altro, un luogo al di fuori dei confini reali e, allo stesso tempo, alla realtà saldamente ancorato: da una parte il mondo dei padri, dall’altra quello dei figli, in mezzo – per una precisa scelta della regia che, nel rispetto del testo, ne ha modificato, ampliato e trasfigurato i contorni – il mondo dei magici e quello dei proletari. La magia, perno del Sogno, rappresenta il mondo alternativo, un mondo anarchico, dove non occorre nemmeno la contestazione, basato sul sovvertimento delle norme di genere, di classe, sociali.
In questo mondo, al quale i ragazzi, allontanandosi dall’universo dei padri, accederanno, non occorre portare avanti una dichiarazione di guerra alle regole: la libertà esiste a priori, è statutaria.
Nel loro viaggio collettivo verso la distanza e il distacco da un universo valoriale nel quale non possono più riconoscersi, i quattro protagonisti si confronteranno con domande e problemi ai quali potranno trovare risposta solo in una dimensione collettiva e nella relazione con i due mondi “altri” rispetto a quello di origine. Se però da una parte il mondo dei magici attirerà la loro attenzione per il potenziale dirompente – di fuga ed emancipazione – incarnato, quello dei minatori – altro grande protagonista dell’opera – resterà a loro sempre estraneo e, anzi, fungerà da polo identificativo di un’alterità verso quale scagliarsi, riavvicinando, in un certo modo, la piccola compagnia “ribelle” all’origine borghese.
La classe operaia, con i suoi problemi concreti quotidiani, così diversi da quelli di chi – grazie al contesto di origine – ha la possibilità materiale di potersi porre altre questioni (il lusso di avere certi problemi), vive con distacco la rivoluzione punk dell’ “altrove”. La loro rivoluzione, fatta di rivendicazioni salariali e tutele – nel contesto sociale dell’Inghilterra degli anni Settanta – diventa nel Sogno una fuga momentanea verso ciò che più distante possa esserci dalle loro vite. Una lotta fatta di evasione nella quale la prospettiva di una vita diversa passa dall’allontanamento dal contingente e dal terreno e si incarna nel teatro. La recita, che la piccola compagnia di minatori preparerà e sottoporrà al giudizio impietoso del pubblico borghese, rappresenta un atto di fede, quasi di carattere religioso.
Il teatro ritrova così, nell’estrema semplicità – a tratti misera – della loro performance, il suo valore più profondo, quello del mistero.
Contro questo tentativo di recupero delle radici più intime, ma allo stesso tempo elementari, del fare teatrale, si scaglierà il pubblico – incarnato dai giovani protagonisti – che darà sfogo al proprio risentimento, privo di un obiettivo politico netto, proprio sulla miseria dei minatori: l’altro da sé. I testi shakespeariani storicamente si prestano ad una riflessione di carattere politico – intesa nel suo senso più alto – che emerge in questo adattamento in maniera forte, creando un nesso stringente con il contesto attuale. In un mondo, quello dei Millennials, del precariato, del venir meno delle certezze storiche legate al lavoro e ai rapporti sociali, la rivoluzione – secondo il regista – può passare dall’arte e dal teatro, ma solo ad una condizione, che è quella rispettata nel Sogno: che la scena torni a nutrirsi di mistero. Solo attraverso il recupero della finzione scenica, alla costruzione paziente di un gioco teatrale che accompagni lo spettatore in un altrove frutto di una fusione fra falso e vero, al ristabilirsi di un ponte empatico fra attori e pubblico, il teatro potrà ritrovare la sua centralità sociale e farsi agente promotore di un cambiamento.
Da questa premessa nasce dunque il Sogno, un Sogno contemporaneo che però non ha abdicato alla volontà di essere rito magico. In un’epoca in cui il ritorno alla semplicità emozionale, pur col rischio di un allontanamento dai gusti di un certo intellettualismo spinto, può permettere davvero un recupero della dimensione corale e comunitaria dell’atto teatrale, far viaggiare il pubblico – nel tempo di una rappresentazione – è un gesto forte, quasi sacrale.
Anche nell’analisi dei sentimenti, nei rapporti personali, nella relazione fra i protagonisti – interamente giocata sulla convinzione di poter decidere della libertà altrui senza mai porsi il problema di una necessaria scelta personale – nel senso di pudore e vergogna della compagnia di minatori di fronte alle reazioni negative del pubblico borghese, nel desiderio di trasformazione della propria esistenza – da parte di tutti – fosse anche solo per il breve spazio di una finzione scenica, non si perde mai l’elemento collettivo. Grande opera corale il Sogno di una notte di mezza estate è passato e presente, sguardo attento e analitico, a tratti impietoso, e fantasia al potere. Forse proprio la ricetta per un teatro misura e rappresentazione in potenza della società di domani.
Ph. Luca Del Pia
Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare
Produzione Elsinor Centro di produzione teatrale
Compagnia Idiot Savant
DA WILLIAM SHAKESPEARE
TRADUZIONE, ADATTAMENTO E REGIA FILIPPO RENDA
CON ASTRID CASALI, AURELIO DI VIRGILIO, MATTEO GATTA, MAURO LAMANTIA, LUCA OLDANI, BEPPE SALMETTI, MATTIA SARTONI, LAURA SERENA, IRENE SERINI, ESTER SPASSINI
SCENE E COSTUMI DI ELEONORA ROSSI
DISEGNO SUONO E DISEGNO LUCI ROSSANO SIRAGUSANO
ASSISTENTE ALLA REGIA VALERIA DE SANTIS
ASSISTENTE VOLONTARIO NICOLÒ VALANDRO
ASSISTENTE COSTUMISTA ALICE MANCUSO
SARTO DI SCENA FABRIZIO MARI
TRUCCO STUDENTI ACCADEMIA ALLA SCALA
FOTO LUCA DEL PIA
Dal 5 giugno al 24 giugno al teatro Fontana di Milano
http://www.teatrofontana.it/
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