Pro o contro il bail in? Significa essere pro o contro il legame stato-banche

27 Febbraio 2016

“Il bail in è una boiata pazzesca”. Nel paese di Fantozzi risuona, non solo tra politici, popolani e populisti, ma anche tra osservatori attenti e tecnicamente preparati, l’urlo liberatorio dell’uomo qualunque. Molti rimpiangono che Paolo Villaggio non abbia più gli anni né gli eredi per ritornare nelle sale con un “Fantozzi a Bruxelles”. Ma come Fantozzi divideva le famiglie, anche il “bail in” ha suscitato un dibattito che divide la politica, l’industria bancaria e la regolamentazione, e l’accademia. E la divisione è più problematica a sinistra, dove ci si chiede se una scelta di campo a favore del “bail in” non sia un passo troppo lungo verso una separazione troppo netta tra stato e mercato che è patrimonio della destra. Anche io confesso che non so da che parte stare, e non posso fare di meglio che delineare i pro e i contro dei due schieramenti, con il risultato probabile di menare e prenderne dalle due parti.

Per cominciare, mette d’accordo tutti il fatto che la regolamentazione sul “bail in” sia stata applicata con un metodo barbaro. Non solo ha coinvolto retroattivamente chi aveva acquistato i titoli emessi dalle banche in passato, come stigmatizzato pubblicamente da Banca d’Italia. Aggiungiamo qui una velina nuova, che ci è giunta da una fonte autorevole, che descrive bene quanto sia stata ridicola l’applicazione di questa norma.

Ricordiamo che la metodologia del “bail in” ha un giovane padre in Europa, il riccioluto Dijsselbloem, l’olandese capo dell’Eurogruppo, che quando era ministro delle finanze del suo paese risolse la crisi della banca SNS azzerando il debito subordinato. Il risultato fu che anche chi si era assicurato contro il default di SNS, con i famosi prodotti CDS (credit default swap) rimase con un palmo di naso, perché l’espropriazione da parte dello stato non era contemplato tra gli “eventi di credito” che potevano fare scattare l’escussione dell’assicurazione. L’anno successivo, nel 2014, l’ISDA, che definisce per il mercato mondiale i termini di questi contratti di assicurazione, ha dovuto inserire un nuovo “evento di credito” dal nome: “intervento del governo”. Ora un gesto come quello di Dijesselbloem sarebbe coperto di assicurazione. Ed ecco la notizia: è successo ancora. Nella prima applicazione del “bail in”, con il caso Novo Banco in Portogallo, chi aveva comprato l’assicurazione contro il default è rimasto con un palmo di naso ancora una volta. Il “bail in”, infatti, non è neppure un intervento governativo, e non è contemplato come evento di credito. La sanità mentale di chi lavora all’ISDA è messa a dura prova: ancora Dijesselbloem.

Se il modo in cui il “bail in” è stato applicato ci porta naturalmente a schierarci contro, il principio su cui si fonda questa nuova regolamentazione è un tema che abbiamo condiviso in molti. In questa crisi abbiamo osservato una “mostruosa fratellanza siamese”, per usare un termine coniato da un banchiere italiano quando la banca italiana contava, o un “loop diabolico” per usare un termine proposto da una batteria di economisti (tra cui il nostro Marco Pagano) in un recente lavoro scientifico. E’ il legame tra il rischio del sistema finanziario e il rischio sovrano. Non c’è dubbio che questa “fratellanza siamese” possa essere molto più “mostruosa” di quella tra banca e industria cui si riferiva Raffaele Mattioli nella grande crisi. Il contagio tra sistema bancario e debito pubblico non lascia nessun altro cavaliere bianco che possa offrirsi di spengere l’incendio di una crisi sistemica come quella che abbiamo vissuto.

Proprio la preoccupazione per questo rischio rende difficile condividere un’iniziativa che è diretta a smantellare la regolamentazione del “bail in”, anche se proposta da ambienti di Banca d’Italia e specialisti indiscussi del settore. Anche il nostro caro Angelo (Baglioni), che detto tra noi mi confessò di essere un estimatore di Fantozzi, ha formulato su lavoce.info una proposta che di fatto smantellerebbe il “bail in”. La proposta si appoggia su un intervento tecnico, sul quale non entriamo, da parte dell’European Banking Authority (EBA), diretta a rafforzare il “bail in”, per negarlo di fatto. In parole povere, un insieme di passività bancarie dovrebbe riportare esplicitamente il fatto che sarà a rischio di “bail in”, e cioè potrà essere spazzata via in caso di crisi della banca. La proposta suona stonata per due ordini di motivi. Il primo è che riconoscendo che alcune obbligazioni bancarie sono a rischio di “bail in”, di fatto lo esclude sulle altre, e quindi rinnega la legge: perché non farlo esplicitamente? Il secondo è che siccome l’intervento e la garanzia dello stato non è la regola, o comunque non è una regola scritta in nessun prospetto, sarebbe ben più logico indicare esplicitamente quali obbligazioni siano coperte da garanzia pubblica. Non è logico scrivere “cade acqua” su una cannella o una doccia, è forse il caso di avvertire se la cannella non funziona.

Se si vuole aggirare il “bail in”, ci sono forse modi altrettanto furbi e più immediati per farlo. Io stesso mi sono divertito a far circolare, per vedere quanto fosse robusta ai pareri legali, l’idea di un nuovo prodotto finanziario a prova di “bail in”. L’ho chiamato TIGRI (Titolo a Garanzia Reale Impoverita) e funziona in maniera molto semplice: emetti un titolo per 100 con una garanzia di 10. Risulta un titolo garantito, e per legge dovrebbe escluso dal “bail in”. In tutto o in parte? Questione da avvocati, comunque quando te lo vengono a portar via nella procedura di “bail in” ti puoi appellare al principio “stupida lex, sed lex”. Si tratta di “wrestling finanziario”: non provatelo in banca.

Al di là delle furbizie, dobbiamo approfondire perché siamo contrari al “bail in”, e quale argomento possiamo portare per eventualmente schierarci a viso aperto contro. A mio avviso più preoccupante del teorema del “bail in” è il suo corollario. Se il fine del “bail in” è la separazione tra rischio bancario e rischio sovrano, non c’è dubbio che esso è solo il primo passo di un’opera incompiuta. Si è separato il destino delle banche da quello dello stato. Il completamento ovvio e necessario, se siamo a favore del “bail in”, è salvaguardare il sistema bancario dal rischio sovrano. Di questo già si parla e si scrive, e risulta che si sia già votato al Parlamento Europeo. La prospettiva è talmente inquietante e mostruosa che, al contrario di quanto è successo per il “bail in”, tutti ripetono che sarà un processo lento e graduale. Come un corpo umano, il sistema economico si adatterà piano piano all’arsenico, preso a piccolissime dosi.

In conclusione, ecco servito un dilemma che attraverserà il dibattito per molto tempo. Ma il tema non può essere solo il “bail in”, e non può solo essere tecnico. Il problema è politico, e riguarda se siamo contrari o a favore della “fratellanza siamese” tra banche e stati: se la riteniamo un problema letale in vista di una prossima crisi, o se la riteniamo un’ancora di salvataggio. Se non la riteniamo un problema, e pensiamo che il legame tra banche e stato possa rafforzare il sistema, dobbiamo negare il “bail in” a viso aperto, senza ammorbidimenti e richieste di ridiscussione. In questo caso la proposta Baglioni va bene, a patto che si definisca esplicitamente la presenza della garanzia statale su certe categorie di titoli bancari e non la sua assenza. L’azione conseguente è l’opposizione a interventi che limitino l’investimento delle banche in titoli di stato, se non attraverso tecniche che ne riducano il rischio: un esempio, proposto in diversi lavori (anche del sottoscritto) è una cartolarizzazione dei titoli del debito pubblico che crei un mercato liquido europeo di titoli a basso rischio. Se invece riteniamo che la “fratellanza siamese” sia mostruosa, accettiamo il “bail in” e prepariamoci all’idea che questa è solo una colonna dell’architettura. Lo spirito di simmetria per i nostri templi greci e per le nostre “domus” romane ci convincerà che sarà necessario far accantonare alle banche capitale a fronte dell’investimento in titoli pubblici. Su questi due scenari ci è richiesto di schierarci.

TAG: Angelo Baglioni, bail in, banche, CDS, debito pubblico, ISDA, Marco Pagano, Raffaele Mattioli
CAT: Banche e Assicurazioni, Politiche comunitarie

2 Commenti

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  1. enea-melandri 8 anni fa

    C’è anche un’altra via, condivisa da me – che vengo da Rifondazione – ma anche da Oscar Giannino: http://fareprogresso.it/vedi_fp_full.php?id=2259&ref=sg

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  2. umberto.cherubini 8 anni fa

    Vero, ma la via non è “altra”. E’ quella del rispetto del vincolo tra banche e stato ai suoi massimi livelli. Non sono contrario alla proposta. Ho però due osservazioni. Prima: le banche salvate dallo stato possono diventare iniquamente voraci verso debitori pregressi, che possono essere anch’essi pubblici. Esempio: a me è capitato che RBS, salvata da sua maestà, sia venuta in Sicilia a chiedere l’applicazione di una break-out clause su un contratto derivato. In altri termini: la banca acquistata dal contribuente inglese è venuta a maramaldeggiare con il contribuente siciliano. Secondo: non abbiamo evidenza di uscita dello stato. Esempio: Commerzbank, è stata acquisita dal contribuente tedesco. Anziché venderla lo stato ha ricominciato a pagare i dividendi a sé e agli altri azionisti. La cosa che mi scandalizza, ma pare abbia scandalizzato solo me. Non è dato sapere quando lo stato uscirà fuori da Commerzbank.

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