Milano In: la città solidale

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15 Luglio 2015

L’azione svolta dall’attuale Amministrazione comunale di Milano ha prodotto buone peculiarità che vanno evidenziate e preservate, poiché non si tratta solo di una positiva parentesi ma di seguire il solco entro cui canalizzare il futuro impegno in materia, anche alla luce della fine del mandato e delle prossime amministrative del 2016.

Due premesse, molto semplici, ma che ritengo necessarie, in tempi in cui l’analfabetismo politico è molto diffuso, per mutuare una celebre definizione di Brecht:

  • da quasi un decennio i tagli nei trasferimenti nei confronti degli enti locali sono drammatici, ma al contempo proprio sugli enti locali e sui Comuni in primo luogo si scaricano, soprattutto in tempi di crisi economica, le maggiori tensioni, in ambiti quali ad esempio l’edilizia popolare o più in generale i servizi sociali.
  • il secondo punto riguarda le competenze dirette in tema di lavoro su cui i Comuni possono contare e che sono tutt’altro che numerose, ben inferiori rispetto a quelle delle Regioni e anche delle stesse (ex?) Province, che gestiscono – invero con risultati non eccelsi, anche se estremamente differenziati tra i diversi territori – i centri per l’impiego.

In ogni caso è evidente come di per sé una Amministrazione comunale non possa direttamente creare lavoro, bensì al più fungere da facilitatore, anche tra soggetti ed esperienze produttive nate spontaneamente.

In realtà questa difficoltà ad incidere direttamente in termini di creazione di posti di lavoro vale addirittura (sebbene in maniera differente) per gli stessi Stati nazionali e per le relative legislazioni, tant’è che ci si interroga da ormai un ventennio sul che fare, in un’epoca in cui troppo a lungo si è rimasti afoni davanti ai due elementi che hanno spazzato via la vecchia organizzazione del lavoro, e con essa la stessa società che su questa si innestava: la globalizzazione dei mercati e la rivoluzione informatica, che hanno reso quasi “infinita” la lunga transizione di quello che si definisce post-fordismo.

Ciò premesso, credo sia importante evidenziare le potenzialità di un progetto quale “Milano in”: l’inizio di un percorso collettivo che mira a creare connessioni e reti (umane prima ancora che telematiche) tra soggettività, anche diverse, presenti in città ma a cui spesso mancano ambiti e spazi di auto (e mutuo) riconoscimento, soprattutto in un tempo come il nostro in cui invece la rappresentanza – politica, sociale, sindacale – appare sempre più schiacciata e appiattita in un discorso leaderistico (quasi fideistico) che mortifica i corpi intermedi.

Entrando nel merito del perimetro concettuale delimitato dal binomio innovazione / inclusione che caratterizza questo percorso, altri e meglio di me hanno scritto in termini di conseguenze sulla governance della città, e su cosa debba intendere per innovazione; a queste riflessioni non saprei aggiungere null’altro se non ricalcare come con questo termine non si debba intendere la “mera” dimensione tecnologica, fine a se stessa, ma come (anche) le nuove tecnologie possano portare alla definizione di nuovi processi: insomma, non un restyling dell’esistente ma una nuova via per fare cose nuove.

Ma è sul secondo termine, inclusione, quale finalità della stessa innovazione sul quale volevo, da giurista, porre l’accento.

Intanto perché sebbene sia di gran moda una visione cosiddetta di law and economics del diritto, tendente a spiegare le disparità soltanto alla luce delle asimmetrie informative (penso soprattutto alla materia a me più vicina, il diritto del lavoro, ma non solo) ritengo invece che si tratti in larga parte di disuguaglianze da rimuovere.

Questo è senza dubbio il ruolo della politica per il tramite del diritto: inclusione significa che il legislatore, e il decisore politico in questo caso, fa proprio il principio costituzionale della solidarietà.

Con questo termine – non è un caso se lo evidenzio in queste settimane di tensioni sociali – non si deve intendere né l’essere “anime belle” né la generica benevolenza tra individui o il fare beneficienza: quest’ultime sono infatti relegate alla sfera della morale, mentre il concetto di solidarietà è profondamente ancorato al nostro diritto positivo, derivando direttamente dalla Costituzione.

Concetti astratti, che è facile far propri, ma che è difficile vedere concretamente realizzati?

Non credo, se ci si sforza di leggere in filigrana alcuni importanti fenomeni che in questi anni hanno interessato Milano: ad esempio va in questa direzione l’opera intrapresa dalla Fondazione Welfare Ambrosiana, la quale soprattutto negli ultimi anni in cui la “Grande crisi” ha morso, ha risposto con una serie di interventi ad ampio spettro, che ritengo vadano ulteriormente valorizzati e che mi auguro possano fungere davvero da esempio ed essere esportati.

In primo luogo, attraverso alcune pratiche si riprende una tradizione storica che è quella della mutualità, che è la forma primigenia di solidarietà tra pari che si auto-organizzano, in mancanza o in aggiunta agli interventi dello Stato sociale: in questa direzione vanno le azioni intraprese nell’ambito sanitario e a quello promosso dall’agenzia sociale per la locazione Milano Abitare.

Questa agenzia ha il merito di affiancarsi evidentemente agli enti che si occupano di edilizia popolare e convenzionata, ma anche di andare oltre e di rivolgersi non solo agli incapienti o ai c.d. woorking poor ma pure a tutta quella larga fetta di popolazione che ha un reddito non sufficiente a sostenere i costi di locazione richiesti dal mercato: si tratta proprio di quel blocco sociale, molto rilevante in termini numerici (meno in termine di rappresentazione di sé nel dibattito pubblico), che vive una condizione sociale impensabile fino ad una generazione fa, caratterizzato com’è da un alto capitale umano in termini intellettuali e professionali e bassi redditi.

Ma inclusione sociale, non significa solo Welfare, sebbene declinato anche in ambiti irrituali e innovativi, ma anche una rete di interventi di sostegno all’imprenditorialità, dal micro credito sociale di impresa e per i giovani imprenditori, agli incubatori quali FabriQ, ma penso anche ai diversi bandi gestiti insieme dal Comune e dalla Camera di Commercio.

Solo per fare un esempio, la Camera di Milano negli ultimi 5 anni ha realizzato bandi espressamente dedicati al sostegno all’innovazione delle micro e piccole imprese, mettendo a disposizione circa 12,5 milioni di euro all’anno: questo capitale ha generato investimenti privati da parte degli oltre 660 beneficiari pari a oltre 30 milioni di euro.

Per ogni euro messo a disposizione, le aziende ne hanno investiti mediamente 2,42, più che raddoppiando il budget iniziale.

Molte di queste erano imprese sociali, che operano nel cosiddetto Terzo Settore, altre ancora  startup: per inquadrare quest’ultimo fenomeno basti dire che a fine marzo 2015 il numero di startup innovative iscritte alla sezione speciale del Registro delle imprese, ai sensi del decreto legge 179/2012, era pari a 3.711, e Milano è la provincia che ne ospita il numero maggiore: 533, pari al 14,4% del totale.

Si tratta di strumenti anche molto differenti tra loro e rivolti certamente a target e profili diversi anche per ciò che concerne i rischi e i rendimenti, ma che hanno il merito di andare tutti nella medesima direzione: esempi, concreti, di quel ruolo attivo del pubblico “innovatore” che, come spiega Marianna Mazzucato, smonta quel mito duro a morire per cui – banalizzo – solo privato può voler dire innovazione, e lo Stato (più in generale il pubblico) zavorra.

Rimuovere quegli ostacoli di «ordine economico e sociale» che limitano di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini e al contempo intrecciare percorsi, nuovi, anche con quei soggetti e quei blocchi sociali (ad esempio il c.d. Quinto Stato di cui hanno scritto Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli) che la sinistra non ha saputo “leggere” proprio perché difficili da “incasellare” attraverso le categorie tradizionali del lavoro dipendente: non vedo miglior programma che una amministrazione che si consideri sinceramente progressista possa (continuare) a far proprio.

Del resto a chi gli chiedeva cosa sarebbe rimasto del Novecento, Vittorio Foa, della cui lucidità oggi più che mai si sente la mancanza, affermava con la sua solita dose di eterodossia: «Il nuovo secolo non avrà solo nuove vicende ma anche nuove categorie per capirle» (V. Foa, Questo Novecento, Einaudi, 1996).

Compito complesso, ma è arrivato il momento di provare anche ad (auto) rappresentarsi nel dibattito pubblico, non solo in termini di negazione.

Vi è un verso che finora ha ben riassunto il nostro status quo: «solo questo possiamo dirti oggi, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo» (E. Montale, Non chiederci la parola, Ossi di seppia, Mondadori, 1984).

Non è poco soprattutto in tempi di egemonia del pensiero unico.

Ma ormai non basta più.

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CAT: economia civile, Milano

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