I tre stadi dell’esistenza di Tolstoj

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26 Gennaio 2016

1. La cosa più singolare della lettura consecutiva dei romanzi di un autore molto amato è che si crede di leggere dei libri e invece si chiacchiera con un uomo. Un uomo che spesso non c’è più. Ho amato molto  Tolstoj nell’epoca della mia meglio gioventù di lettore appassionato   e un po’ rétro.  Credo di averlo letto tutto –  quello edito e in circolazione nella  metà degli anni ’70 –  eccetto “I cosacchi” e “Chadzi- Murat” e gli scritti saggistici e religiosi dell’ultimo periodo della sua vita. In cima alla mia predilezione ci sono “La morte di Ivan Il’ič ”, “La sonata a Kreutzer”  e gli immensi “Anna Karenina” e “Guerra e pace”. Ho letto la Karenina due volte e “Guerra e pace” una:  per leggerlo due volte quest’ultimo occorrerebbero due vite. Ho letto questo  lunghissimo romanzo  (oltre 2000 pagine nella mia edizione Garzanti Grandi Libri, trad. P. Zveteremich) in marce forzate, è il caso di dire visto la materia bellica,  in una calda estate siciliana, nel cortile di casa, con il conforto di un pacchetto di sigarette “MS” a notte, e  boccali di  una bevanda al limone ghiacciata che mi preparavo da me. Praticamente la felicità.  Devo dirlo: non avevo altri diversivi, distrazioni o divertimenti.  Mentre i miei amici si avventuravano nei primi interrail, io che ero abbastanza malestante  e lavoravo da imbianchino   per mantenermi agli studi, chiedevo alla letteratura  di espletare il suo ufficio di narcotico  per poveri, di  proiezione a poco prezzo in mondi fantastici:  il raddoppio delle sensazioni nientemeno. Quelle mediate  dalla letteratura avrebbero dovuto affiancarsi,  nelle mie intenzioni, a quelle immediate provenienti dalla vita, ma nei fatti le sostituivano. Chiedevo alla letteratura di salvarmi la vita. E ci sono riuscito. O c’è riuscita la letteratura, nel senso che ha agito con una forza tutta propria su di me. Mi sono distratto, e distraendomi dalla vita vera, proiettandomi  in quella fantastica,  prendevo le misure di quella reale. Chiedevo all’ homo fictus, al lettore qual ero,  di dare una mano all’homo naturalis, di dargli la mappa della  vita – i fondamentali –   tale che al momento di vivere più che conoscerle le emozioni, le esperienze, le situazioni, io potessi riconoscerle. La lettura era insomma una anticipazione della vita, una gigantesca simulazione, come quella che fanno i piloti prima di saliere sui jet, un vivere preavvisato, fuori dai condizionamenti della vita vissuta. Una specie di libertà assoluta quella del lettore dunque,  se quella del vivente è una libertà vigilata.

Sia come sia, Tolstoj (insieme a Stendhal, Rousseau, Brancati , Pavese, Verga, Moravia, Flaubert, Hemingway e tanti altri) accompagnò gli anni belli e afflitti della giovinezza. Ero angosciato – dal bisogno materiale soprattutto – ma avevo questi beni spirituali in eccesso. Rischiavo:  leggevo più di quanto mi necessitasse per vivere. Una situazione di squilibrio pericolosissima, di accumulo di eccitazioni mentali , di exacerbatio cerebri, che in genere conduce gli individui senza pesi  a  librarsi nel vuoto della nevrosi, della più grande e irrimediabile infelicità, oppure andare incontro al destino tipico dell’intellettuale spiantato: trovare impiego con artifici e raggiri a  Mediaset o vagheggiare inacidito il sovvertimento violento dell’ordine esistente. Forse  vivere significa  garantire un’accettabile integrità all’io, ovvero impedirne letteralmente la   disintegrazione, porre solide basi all’arco dell’esistenza  tra progetto ed esecuzione, giovinezza e maturità, speranza e ricordo. C’era dalla mia parte tuttavia anche la nascita plebea e l’ironia popolaresca  che mi impedivano di “prendere la tangente” come avvenne a tanti  viziati borghesi della mia città. Nel dialetto del popolo dopotutto la parola “pensiero” coincide con il campo semantico di “preoccupazione” e suggerisce vivamente  di non averne troppi di questi “pensieri” in testa.  Mi “salvai”, se mi salvai (« Non dire che un uomo è felice se non hai visto l’ultimo dei suoi giorni», ultima battuta di “Edipo re” di Sofocle),  soprattutto grazie a Tolstoj. Cosa ho trovato in Tolstoj di tanto salutare e salvifico? Semplice: la vita.  Boom! Sì la vita etica. Non che Tolstoj mi abbia dato chissà quale formula che mondi potesse aprirmi, forse soltanto indicato una tana (la letteratura, la lettura in sé) da dove scrutare la lotta per la vita (degli altri), o forse qualche indicazione generica sui salvacondotti per superare alcune frontiere dell’essere, allo scopo di  affrontare,  anche schivandola forse, quella res severa che è la vita stessa. Che come è noto, tanto fu seria con lui da farlo deragliare  in età tardissima  poco prima della morte (a comprova che di formule facili non ce n’è proprio).  Ma solo dopo molti anni ho compreso  che Tolstoj mi aveva indicato la vita etica, ovvero la vita matrimoniale. Una cosa dopotutto  non scontata in un’epoca  (fine anni Settanta)  di attacchi all’istituzione matrimoniale,  di  “familles, je vous haie!”, di coppie aperte, di nomadismo sessuale, di “comuni “ e di Macondi.

2. Quando si  legge un’opera non abbiamo mai contezza dell’azione che essa esercita su di noi. Spesso non sappiamo neanche condurre una ricognizione ragionata della trama, figurarsi  capire il centro  profondo che l’opera ha in sé e per sé o solo per noi (non sempre i due piani infatti coincidono).  Dell’opera  perdiamo la visione nel corso del tempo, ci sfugge non solo la trama, ma anche l’impressione complessiva, restando nella nostra memoria soltanto alcuni punti luminosi, i “fosfeni “ di quell’opera, come  quando chiudiamo gli occhi e li strizziamo a palpebre chiuse. «Un nugolo di impressioni, alcuni punti chiari che emergono da un’incertezza fumosa: è tutto questo che in genere possiamo sperare di possedere di un libro» e «un libro non è una catena di fatti, è una singola immagine».  (cit. P.Lubbock – “Il mestiere della narrativa”, Sansoni 1984”). E ciò accade per i dettagli del libro e a volte del suo insieme, si tratti del viso di Natasha,  della morte di Bolkonskij, del peregrinare cogitativo di Bezukov, del saggio Kutuzov  o dell’epilogo stesso della vicenda, che tuttavia  ricordiamo benissimo:  finisce in un tranquillo tinello familiare. Relativamente alla “forma” per esempio ancora il nostro critico inglese Percy Lubbock dice che “Guerra e pace” non ne ha, come struttura forte egli intende dire, ma   è piuttosto un “flusso” inarrestabile di eventi, lungo come un grande fiume  o come un inverno russo: «Lo scorrere del tempo, l’effetto del tempo appartiene al cuore del soggetto» di questo romanzo .

Probabilmente quel tipo di narrazione “fluviale” oggi non avrebbe  corso, è fuori dalla nostra stessa percezione del tempo,  la quale è accelerata e sincopata ormai come un videogioco. Alcuni critici (Italo Calvino, non ricordo più dove, forse in “Perché  leggere i classici” che  non ho sottomano) dicono che è cambiata la nostra stessa percezione del tempo: nell’Ottocento la visione della realtà era come quella osservata da un tranquillo signore sul parapetto di una nave, oggi  è  quella, accelerata e vorticosa, di chi cade nella tromba delle scale. E qui forse ha ragione  Alfred Polgar (“Piccole storie senza morale”, Adelphi 1994) quando dice: “La vita è troppo breve per la forma letteraria lunga, è troppo fuggevole perché lo scrittore possa indugiare in descrizioni e commenti, è troppo psicopatica per la psicologia, troppo romanzesca per il romanzo; la vita fermenta e si decompone troppo rapidamente per poterla conservare a lungo in libri ampi e lunghi”. Nel vortice della nostra vita sociale suggerire la lettura di “Guerra e pace”  a soggetti debilitati dagli scossoni di un assetto sociale  che ruba vita alla vita  potrebbe perciò sembrare un azzardo quando vorrebbe essere solo  una proposta aristocratica e insieme terapeutica. Se oggi  infatti si moltiplicano gli inviti a consumare  cibo,  musica, televisione  lentamente, perché non anche la narrativa lenta di Tolstoj?

3. Nel corso di una di quelle  scorribande da lettore  onnivoro e disordinato quale sono,  mi imbattei in  un illuminante passo di Remo Cantoni (“La coscienza inquieta”,  Il Saggiatore, Milano 1976, n. 18, p.55) che improvvisamente mi delineò il rapporto tra me e Tolstoj e mi mise sulle tracce di un’ interpretazione pungente dell’arte tolstojana, sul solco delle “filosofia dell’esistenza”. Interpretazione  che da allora mi accompagna.   Il libro di Cantoni è una delle più belle e penetranti disamine del pensatore danese ancora circolante in lingua italiana. Riassumiamo a grandissime linee  (e con qualche mio tradimento) questa dialettica esistenziale. Don Giovanni, l’Assessore Guglielmo e Abramo sono nel pensiero di Kierkegaard le figure emblema  dell’itinerario  fenomenologico dell’esistenza.  Vita estetica, morale e religiosa sono i tre “stadi” possibili della vita. Sono essi coincidenti con in tre stadi della vita biologica:  giovinezza, maturità e vecchiaia? No, certamente (a me è capitato il contrario: una infanzia e giovinezza religiose, una maturità etica, un inizio di  terza età estetica, speriamo!), anche se i tre stadi in genere si attraversano secondo questa sequenza e i tre personaggi portatori delle istanze sembrano ricalcare le tre età della vita. Il giovane don Giovanni, il maturo Guglielmo, il vecchio Abramo. Diciamo subito che chiunque abbia superato le rapide dello stato nascente dell’innamoramento ed è entrato nel placido stadio istituzionale del matrimonio ( o della diade stabile)  sa che la nascita di un figlio immette la coppia in un universo di valori in cui l’eticità è la “dominante”. Anche se si troverà la propria personale vibrazione estetica nel cambio dei pannolini, nei fatti i figli,  che pur sono una nostra vena che batte fuori di noi, non sono  noi, sono altro da noi e chiedono cure indifferibili, impegno diuturno, fatica e apprensione infinite. Oltre che serietà coscienziosa. Se la giovinezza è uno stato “estetico” per definizione (da aisthesis, esperire con i sensi) visto che si hanno addosso troppo pochi giri d’esistenza per avere una dimensione più sedimentata e ragionata della vita, la nascita di un figlio pone il soggetto immediatamente nella dimensione etica. Il marito è l’eroe coniugale se i grandi amanti sono eroi  pre-coniugali, post-coniugali o meta-coniugali.

Ora, i tre stadi vivono in maniera autonoma nelle scelte di vita di ciascuno di noi, ma c’è da aggiungere che non sono “isolati”, allo stato puro, sono misti dialetticamente e si contaminano a vicenda,  nel senso che c’è nella vita estetica una piega a volte religiosa. Don Giovanni ha il culto della donna si potrebbe dire, ma,  oltre ai  genitali di lei, da acquisire in maniera compulsiva  e seriale in una “cattiva infinità” nel tentativo, sempre fallito, di possederli per sempre,  c’è la ricerca inesausta delle infinite modalità estetiche in cui si manifesta  l’inebriante “femminile” nelle donne. Un fatto che di per sé vale la coazione a ripetere. Ma anche nella vita religiosa vi sono componenti estetiche.  Non occorre aver letto Freud per intero per capire che in alcune esperienze religiose estreme, nei cilici e nelle autofustigazioni o addirittura nella scelta finale della morte autoinflitta come quella dei  martiri qualcuno ha visto una sorta di piacere,  voluptas dolendi  estrema  fino all’amor mortis. Clemente Alessandrino lo vide negli occhi dei martiri cristiani e se ne spaventò a tal punto  da sospettare che fossero dei voluttuosi aspiranti suicidi infiltrati tra le fila dei  “veri” cristiani.

“Noi per parte nostra biasimiamo coloro che si sono gettati in  braccio alla morte: giacché esistono alcuni che non sono realmente dei nostri, ma hanno in comune con noi soltanto il nome, e che ardono dal desiderio di consegnarsi, poveri miserabili innamorati della morte (grassetto mio) in odio al Creatore. Noi affermiamo che questi uomini  commettono suicidio e non sono martiri, anche se vengono ufficialmente giustiziati. “ (citato da A. Nock.  “La conversione”, Laterza, Bari, p.155).

In fondo, la scelta della vita etica è di tipo mediano, fuori dai,  e forse contro i, grandi turbamenti  e le sfide estreme della vita estetica e religiosa.  L’istanza della vita etica può imporsi in due modi secondo ciò che  ho compreso provvisoriamente. A) sorgere dalla malinconia, dallo squallore, dall’autodistruzione  insita  nella vita estetica stessa. C’è un momento in cui la vita estetica appare all’esteta come insensato scialo che  brucia solo nell’attimo; la propria genialità sensibile e sensualità demoniaca  gli appaiono senza scopo se non se stesso.  Oppure B) come strategia di ritiro calcolato della “cattiva coscienza”, la quale “spontaneamente”  tenderebbe sempre e comunque alla vita estetica, approvandola nell’intimo,  ma quasi sempre negli individui medi non ha i mezzi per metterla in atto. Accade così che non potendo vivere una vita di piaceri ce ne inventiamo una di doveri.   È, infine,  anche vero che  nella vita etica  si assaporano le dolcezze dell’uno e dell’altro stadio sia estetico che religioso (per chi ha fede). Com’è vero che nell’amore coniugale si trova sia  quella Venerem facilem parabilemque  – il sesso facile e abbordabile  di cui parlava Orazio -, sia   il  culto dell’unione familiare, che era già “sacra”, signori, prima del cristianesimo. Proprio in ultimo mi occorre aggiungere che se il seduttore non ama una donna, ma la donna, l’uomo etico è tentato di amare  la donna in una donna.

4. Analogamente, nei personaggi di Tolstoj gli stadi dell’esistenza kierkegardiana appaiono misti, mai allo stato puro. Se Pierre Bezukov e Konstantin Dmitric Levin (veri e propri alter ego di Tolstoj) sembrano scolpiti nella pietra viva della vita etica (anche se bellamente  “estetica” è la scena “etica” della falciatura del grano perché è il padrone Levin che sceglie di mischiarsi a torso nudo in uno slancio etico-estetico  con i propri  contadini), se  Nechljudov di “Resurrezione” e Ivan Il’ič sembrano smarriti nella dimensione religiosa della vita, Anna Karenina  (una crasi narrativa di Madame de Rênal ed Emma Bovary) è una bella che sbanda  tragicamente dallo stadio  etico a quello estetico, presa al laccio dei  frutti sublimi e amari dell’adulterio. Immensi sommovimenti psichici e sessuali sembrerebbe destare l’amore extraconiugale che oggi  “aggredisce” (o felix culpa!)  le coppie perlopiù intorno ai quarant’anni e ai tempi di Anna ai trenta; una forza  estetica inebriante non solo per i graditi e liberatori sensi di colpa che esso genera, per quel  lato avventuroso  e teatrale di sdoppiamento della personalità  di chi giocoforza deve recitare  due parti in commedia, ma soprattutto  per la “riscoperta”  e la reviviscenza del sesso infeltrito  dalle ambagi  del coniugio e dai gravosi impegni  “etici” dell’allevamento della prole che procurano ottundimento dei sensi e la  fatale clorosi della vita “estetica” dei primi anni matrimoniali quando i sensi scattavano come levrieri all’apertura dei cancelli.

L’io tolstojano  come l’io di ogni grande artista è ovviamente frantumato in tutti i suoi personaggi e in tutt’e tre gli stadi dell’esistenza.  Tolstoj è Anna Karenina, è Pierre Bezukov, Levin ,  Ivan Il’ič, Nechliudov e anche  Vronskij (l’avete visto nelle foto giovanili quant’era bello?).  Ma solo Tolstoj e i grandi artisti, o anche noi, si parva licet? Non accade anche a noi , in fondo,  di attraversare per avventura romanzesca della  nostra esistenza o per adesione cosciente i tre stadi dell’esistenza?  Com’è anche vero che ci può toccare di essere  classici alle nove del mattino, romantici a mezzogiorno  e barocchi   o  decadenti alle ventuno, o se volete da giovani, nella maturità e nella vecchiaia, ad libitum. “Un io è come un club dove vecchi soci si dimettono e nuovi si iscrivono” avvertiva Gadda.

Il giovane Petja Rostov  vive nello stadio estetico ed estatico della vita militare,  dimensione in cui perlopiù si racchiude la vita estetica di Tolstoj  in quanto uomo e narratore, si vedano  i “Racconti di Sebastopoli”.  A noi potrà sfuggire questa dimensione estetica della vita militare. Cosa può avere di estetico l’occupazione di dare morte agli altri a colpi di cannone? Nulla, ma la vita estetica cui qui si allude è quella dell’esuberanza dei corpi, quella  dei giovani conviventi nelle caserme che hanno consuetudine con le altrui nudità  nelle camerate, quella dei giovani soldati  alle prese con bevute  colossali (com’è normale esperienza  dello zapoj, le inenarrabili ciucche russe), che scommettono sulla propria resistenza  sui davanzali  delle finestre della camerate con sotto l’abisso in cui rischiano di schiantarsi, nel gioco ferale della roulette russa, che frequentano i bordelli, esperienza quest’ultima che segnerà di interrogativi angosciosi il Tolstoj di “Sonata a Kreutzer” quando si chiede se quelle stesse mani che hanno toccato le carni guaste e viziose delle prostitute sono le stesse che dovranno sfiorare  i visi angelici di fanciulle educate tra i merletti e spinette,  intente a singhiozzare davanti ad abissali e ridicoli amori romantici e che nulla sanno degli sperdimenti della carne, della sua fosca, sporca,  inebriante fisicità “estetica”. È bene ricordare che educazione sessuale ed educazione sentimentale divergevano per tutto l’Ottocento. Che i giovani maschi apprendevano l’Ars amandi e venivano iniziati sessualmente nei bordelli. Che questo tipo di iniziazione sessuale si è protratta almeno fino agli anni ’60 del ‘900 e che forse la generazione dei nati attorno agli anni ’40-50 del secolo scorso (quella del ’68 per intenderci) è stata la prima in assoluto in Occidente in cui educazione sentimentale ed educazione sessuale coincidono e sono avvenute contestualmente con coetanei. Ma prima di allora  la vita sessuale dei giovani fino al matrimonio, e per molti  anche dopo, si svolgeva  principalmente nei postriboli.

Tolstoj è il cantore dei tre stadi dell’esistenza così  bene “isolati” e descritti da Kierkegaard in tutta la sua opera. Enten Elleraut aut o piuttosto et et? E benché lo stadio etico-matrimoniale sembra essere il proprium di questo grande artista che secondo Isaiah Berlin era una volpe che si credeva un istrice (ne sapeva tante di cose della vita e non una sola, e inoltre era una cosa e si credeva un’altra), si falserebbe la prospettiva  nel comprenderlo appieno se ci si fermasse solo a questo stadio come abbiamo visto. Ma la vita matrimoniale, quella che Kierkegaard ha intravisto con la sua Regina Olsen, è in Tolstoj materia perenne di canto. Tutti ricordano l’incipit di Anna Karenina. “Tutte le famiglie sono felici allo stesso modo ogni famiglia è infelice a modo proprio”. Ma che dire de “La felicità domestica”? che proprio l’elemento etico ed estetico sembra già coniugare nel titolo. E la vita coniugale nella sua forma ossessiva è al centro della indimenticabile “Sonata a Kreutzer” e in “Resurrezione”.  E se si pone mente alla trama di “Guerra e pace” si ricorderà che sono scoppiate mille granate, sono state attraversate decine di fiumi, combattute battaglie eroiche  senza fine, è morto Bolkonskij  in quel modo sublime che tutti abbiamo letto, ma  sembrerebbe che le monde existe pour aboutir une … famille. Tutta la storia e tutto il mondo esistono perché la tenera  Natasha e il pacioso, pacifico e meditabondo Bezukov possano sposarsi. La pace, dopo la guerra, l’idillio domestico di questa coppia dopo lo… scoppio delle granate, sembra che l’epos di tutto il romanzo si incanali e si acquieti in questo tranquillo tinello borghese. Sembra dire Tolstoj “ I drammi ci capitano, ma le tragedie dobbiamo meritarcele, come tutto ciò che è grande”.  Ma in mezzo  o dopo  eventi così perigliosi occupiamoci delle tartine e dei  bambini, perché a  essi  si deve  tornare dopo i grandi “cannoneggiamenti” della vita.

TAG: Lev Tolstoj
CAT: Letteratura

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