La classe operaia dal cinema alla scena

4 Febbraio 2018

Come si fa a non mettere assieme i fatti di Macerata, e quell’esaltato fascista che sapientemente e coscientemente spara su persone inermi, con quel che accade a teatro? Come si fa a non pensare che ci debba necessariamente essere un collegamento tra la civiltà in strada e la civiltà in sala?

Il teatro – lo dice il vecchio adagio – è specchio della società.

E come tale deve essere strumento utile a sbrogliare la matassa, ad affrontare quel polipaio, come lo chiamava Gadda, infarcito di contraddizioni e violenze, di scontri e perdizioni, di razzismi e malversazioni. Tra mafie, logge e fascismi, il Bel Paese riconferma eternamente la sua identità di nazione votata alla sopraffazione e alla furbizia, incapace di uno sguardo maturo, consapevole, e men che meno di una lucida coscienza di classe. Oggi i poveri invidiano i ricchi, li inseguono su territori di cattivo gusto (del vecchio Agnelli ricorderemo solo il fatto che portava l’orologio sopra il polsino, ha detto qualcuno; e del giovane Lapo sappiamo più le imbecilli bravate che non un pensiero positivo), li scimmiottano nei tatuaggi e nelle auto di grossa cilindrata, sempre pronti come siamo a salire sul carro dei vincitori.

Lo sfilacciamento identitario, la mutazione genetica era per Pasolini assimilabile alla famosa “scomparsa delle lucciole”: ma per non scomodare sempre e solo il poeta delle ceneri, varrebbe la pena ricordare tutte quelle punte acuminate di pensiero e di azione in cui il politico ben si declinava in atto creativo, teatrale, cinematografico, letterario o pittorico che fosse.

C’è stata, insomma, una stagione particolarmente viva in cui i nostri artisti si “impegnavano”, si marchiavano di sociale e di reale, quasi impossibilitati a fare altrimenti, consapevoli che le cose stessero per esplodere o implodere a colpi di tensione. Agivano nel tentativo di salvare il salvabile, di non sprecare occasioni per fermare l’inarrestabile declino – o, se preferite, di cambiare strada rispetto all’inesorabile e patriottico conformismo nazional-destroso. Sciascia, Pratolini e Flaiano a modo suo; Fortini e Sanguineti; Volponi e la Morante, Parise e i Ginzburg, e poi Calvino, Arbasino, Pannunzio, Levi, Bazlen e persino Moravia e poi i pittori, gli scultori, e anche Nono e Petrassi e Bussotti; i registi come Scola, Montaldo, Maselli, De Sica, e ancora Squarzina, De Bosio, Costa, Laura Betti, Castri. E Strehler e De Filippo e tanti altri…

Che fine hanno fatto? Che ne è della loro lezione, del mondo che prefiguravano e spesso incarnavano? Cosa rimane di quelle visioni e di quelle utopie? Sono stati sconfitti? Annientati dall’evidenza di un fascista di Macerata con il suo immaginario?

Ma non c’è, non lo avvertite, il filo che lega la lotta operaia, l’autunno caldo e il braccialino di Amazon?

Ci sbatte davanti tutto questo grumo di domande la sontuosa versione scenica di La Classe Operaia va in Paradiso. Era un film, come è noto, diretto con mano sicura e felice da Elio Petri, anche sceneggiatore con Ugo Pirro, nel 1971, e immortalava il talento combattivo di Gian Maria Volonté.

foto Giuseppe Distefano

La versione spettacolo arriva ora in palcoscenico, allo Storchi di Modena, grazie alla regia di Claudio Longhi e l’adattamento drammaturgico di Paolo di Paolo. Ed è un evento davvero considerevole.

Intanto perché prende intelligentemente spunto dal film, per allargare lo sguardo: non si può non tenere conto del tempo passato, delle sconfitte appunto. Ci si immagina, qui, non tanto e non solo la trasposizione della sceneggiatura – che sarebbe stata impossibile – quanto una riflessione aguzza, che pone al centro della narrazione proprio il regista e lo sceneggiatore, fa personaggi delle figure reali. E procede spedita per montare un puzzle, o forse un polittico, in cui i due artisti raccontano la nascita del soggetto, ma anche il contesto socio-economico, i dubbi, le domande. Avvalendosi anche di opere “vicine”, a partire dal bellissimo poema La ragazza Carla di Elio Pagliarani, di poco precedente, scritto nel 1962; oppure di Porci con le Ali, di poco successivo, di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, del 1976; o di un testo di Giuliano Scabia del 69 e infine di alcune mirabili, taglienti canzoni di Fausto Amodei.

Il racconto scenico allora è corale e singolare, generazionale e minuto.

Foto di Giuseppe Distefano

Abbraccia subito epoche e stagioni diverse. È epico e aristotelico potremmo dire, usando non lontane categorie brechtiane, oppure citando – e non a caso – Edoardo Sanguineti, vediamo quanto questo spettacolo faccia risaltare assieme la «massima partecipazione» con il «massimo straniamento».

È ragionevole chiamare in causa proprio il poeta e critico genovese, dal momento che Claudio Longhi, nel suo percorso registico, è più volte tornato a confrontarsi con la visione e la scrittura di Sanguineti, traendone e mettendo in risalto l’afflato civile di un teatro non chiuso in sterili e ormai consunti stilemi “d’avanguardia”, ma anzi foriero di una rivolta “in avanti”, ossia aperta a sguardi sul futuro.

Questo, mi pare, sia l’importante substrato, le fondamenta su cui poggia un’operazione come La classe operaia virata al teatro: il tentativo, cioè, di restituire all’Ente Pubblico, il teatro nazionale ERT, il ritrovato ruolo di svelare le contraddizioni, di porre problemi, di insinuarsi nel sociale non solo e non tanto grazie al prodotto estetico di qualità, più o meno mainstream, quanto per fare della istituzione un vettore di partecipazione e coinvolgimento dialettico. È quel che affermano, in commedia, Regista e Sceneggiatore, quando evocano “l’obbligo di fare un film sugli operai”: ed è l’obbligo, oggi, di rifare, ossia reinventare, un teatro politico del nostro tempo, usando tutti gli strumenti (e i mezzi) a disposizione anche nella stabilità pubblica.

Lo spettacolo, si diceva, si avvale di un impianto narrativo che è un continuo gioco di rimando e svelamento, di identificazione e narrazione, di rottura della quarta parete e intermezzi canori. Sulla scena funzionale di Guia Buzzi, con i video di Riccardo Frati che uniscono documenti storici e sequenze d’oggi, a interpretare il difficile ruolo di Lulù Massa, che fu di Volontè, è un bravissimo e appassionato attore come Lino Guanciale. Emerso ormai, dopo lunga e ampia carriera nonostante la giovane età, baciato ma non contaminato dal successo Tv, Guanciale qui dà prova di camaleontismo linguistico e mimetismo interpretativo, mantenendo però una propria identità, che è testimonianza d’umanità, senza cercare – ça va sans dire – il confronto con il mostro sacro del film. Ne esce a testa alta.

Guanciale e Manea, foto Giuseppe Distefano

Accanto a lui, le figure di questo presepe laico e combattivo, di questo Quarto Stato che era e non è più: Lidia che sogna la pelliccetta (era Mariangela Melato nel film), poi l’Adalgisa, il sindacalista, lo studente, il cronometrista, gli operai, fino all’Armandino e l’indimenticabile Militina che fu di un sulfureo Salvo Randone.

Un mondo, una storia passata, rimossa, smontata bullone dopo bullone da chi, in quella battaglia – culturale come tutte le battaglie – ha definitivamente vinto: il capitale. Il Padrone, allora, in quegli anni Settanta, si poteva combattere, forse addirittura battere. Parlare di lavoro era necessario e certo lo sarebbe ancora: lo ricorda, proprio in apertura, a mo’ di esergo, un passo di Esiodo, in originale, affidato alla superba voce fuori campo dell’attrice greca Aglaia Pappas: «Lavorare non è vergogna, non lavorare è vergogna» afferma tra l’altro.

E, in un collegamento immediato, vien da pensare che forse quegli operai di allora sono i tanti precari di oggi, misconosciuti e dispersi, incapaci ormai di una lotta collettiva e di “classe”, non esclusi gli attori e le attrici in scena, tanto da evocare, in un rapido passaggio, i teatri occupati di qualche stagione fa. Difatti la coralità dell’affresco arriva proprio da loro, dagli interpreti, dall’aderenza del gruppo di giovani e generosi attori che danno l’anima allo spettacolo. Oltre al citato Guanciale, vediamo Nicola Bortolotti fare il “regista”; Michele Dell’Utri lo “sceneggiatore”, e poi, anche in più ruoli, Donatella Allegro (Adalgisa), Simone Francia (il cronometrista), Diana Manea (Lidia), Eugenio Papalia (Studente), Simone Tangolo (anche come cantastorie con i brani di Amidei) e Franca Penone che regala al suo Militina un tocco di scanzonata leggerezza, (presenza importante in scena anche l’ottimo multistrumentista Frilippo Zattini). Sono bravissimi, o almeno a me son sembrati: proprio per quella allegra e felice, non facile, capacità di passare dalla partecipazione allo straniamento, dal coinvolgimento collettivo al dramma personale.

Allora, una volta portata a teatro, la storia della presa di coscienza di Lulù, quel cottimista ignaro dei meccanismi del capitale che diventa simbolo della lotta per il lavoro, è forse uno spunto, o meglio un invito. Così vorrei pensarlo. Non si tratta di evocare un film di successo per fare botteghino. Semmai è l’invito a tornare alla memoria recente, a recuperare quelle storie, a capire e rinnovare le ragioni della lotta. A spendersi, tutti e ciascuno, nelle proprie “fabbriche” per la dignità, la coscienza, il salario, il lavoro. Mi viene da pensare a Sandro Portelli, che nella sua instancabile attività, ha curato un Calendario civile (edito da Donzelli) che è una costellazione di eventi tratti dalla storia passata e recente d’Italia: e il sottotitolo del libro recita “Per una memoria laica, popolare e democratica degli Italiana”. All’elenco di Portelli aggiungerei volentieri certi film, certi spettacoli…

per info: www.emiliaromagnateatro.com

 

TAG: Claudio Longhi, Elio Pagliarani, elio petri, ERT Modena, Fausto Amodei, gian maria volonté, La classe operaia, Lidia Ravera, Lino Guanciale, paolo di paolo, Salvo Randone, Sandro Portelli, Ugo Pirro
CAT: Teatro

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