Le case chiuse tra realtà, memoria e immaginario

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9 Febbraio 2015

Le proposte della giunta Marino su nuovi regolamenti per l’arginamento della prostituzione stradale di Roma in alcune aree circoscritte, accompagnata da una più rigida (almeno sulla carta) politica di repressione della clientela nel resto della città hanno suscitato reazioni che vanno ben oltre la portata, necessariamente limitata, di un semplice provvedimento amministrativo, e che chiamano in causa la necessità di una legislazione generale più efficace sul fenomeno della prostituzione.

Così, al di là del semplice dato della proposta del Comune, nel dibattito pubblico pare quindi riemergere l’istanza sacrosanta di regolamentare l’esercizio della prostituzione, regolarizzando e tutelando sul piano amministrativo, sanitario e della sicurezza chi vi si dedica, in modo da reprimere in modo più fermo e sicuro ogni offerta irregolare del “servizio”, spesso sotto controllo della grande e piccola criminalità o svolta in forma forzata attraverso una vera e propria schiavitù. Come un fiume carsico, però, accanto a queste elementari richieste di chiarezza e civiltà giuridica e di costume sembra allignare troppo spesso l’ingenua idea “miracolistica” di una regolamentazione che garantirebbe senza intoppi la pura e semplice sostituzione della prostituzione sotto controllo criminale con una prostituzione “regolare”. Ancor più grave è poi la tendenza, ancora quasi altrettanto diffusa, a trattare come se fossero mero contorno tutta un’altra serie di questioni che invece una normativa sul tema corretta, moderna e attenta alle esigenze fondamentali degli individui dovrebbe mettere in primo piano, prima tra tutte l’esigenza di tutelare la dignità e la libertà di scelta di ognuno, evitando di assimilare in alcun modo l’esercizio della prostituzione alla reclusione o, ancora una volta alla schiavitù. Detto in altri termini, chi in questi giorni interviene con maggior enfasi sul tema sfiora ad ogni passo il luogo comune per cui una soluzione adeguata al problema sarebbe “riaprire le case chiuse“.

Quella di restituire allo Stato il controllo (sostanziale, se non formale) del mercato del sesso, eventualmente adeguandolo alle nuove modalità  di contatto e alle diverse possibilità di spesa, è una proposta che tutti abbiamo sentito o letto, a prova di una circolarità  del dibattito sulla prostituzione che in un modo o nell’altro ci riporta costantemente al suo momento “fondativo” per l’Italia contemporanea, ovvero alla chiusura delle case di tolleranza nel 1958. In effetti l’idea che ripristinare la soluzione precedente sia un modo per rimetterci in pari con le più avanzate legislazioni europee sull’esercizio della prostituzione in termini leciti suscita, a mio parere, una sonora risata assai meno frequentemente di quanto dovrebbe, e questo è sintomatico di quanto scarsa sia l’informazione di qualità sul tema. Eppure, in questi ultimi anni la riflessione storica ha visto sviluppi di prim’ordine soprattutto grazie a Sandro Bellassai, forse il nostro migliore studioso di storia della sessualità  e dell’immaginario erotico maschile nel Novecento. Mi riferisco in particolare alla sua ricostruzione del percorso parlamentare della legge Merlin e dell’acceso dibattito che fiorì attorno al provvedimento, presentata nel volume del 2006 La legge del desiderio.

Senza dilungarmi in una recensione completa del volume che invito comunque a leggere, mi limito qui a sottolineare i due aspetti che piu’ interessano il mio discorso:

  • Già  negli anni Cinquanta il sistema delle case chiuse, se mai aveva funzionato prima, non funzionava più. Nel 1951 l’inchiesta parlamentare che avrebbe dovuto rilevare le sacche di povertà  e miseria nel nostro paese e l’efficienza della rinnovata assistenza sociale rilevava, tra le altre cose, che a fronte delle circa 3.000 prostitute ospitate nei “casini” ve ne erano 25-27.000 che, spinte dalla povertà , si vendevano al di fuori del circuito controllato (i numeri su cui si sarebbe lavorato nel dibattito finale sulla legge Merlin sarebbero stati leggermente inferiori in entrambi i settori). Anni prima della fine delle case di tolleranza siamo di fronte al fatto che forse il 90% del commercio in questione si svolgeva fuori dell’area controllata. Non e’ chiaro se questo sviluppo del settore “abusivo” fosse dovuto a ragioni di prezzo, socio-culturali (ormai molte mogli non erano piu’ disposte a tollerare i “passatempi” dei mariti, che quindi dovevano cercare soluzioni meno in vista dei bordelli), o se semplicemente la distribuzione legale di corpo femminile garantita dallo stato semplicemente non aveva mai funzionato, e si cominciava ad accorgersene solo allora perché cominciavano ad affluire maggiori dati dalle campagne e dai piccoli centri. In ogni caso, l’idea che solo la chiusura delle case di tolleranza abbia generato la prostituzione clandestina, abbia “riversato le ragazze nelle strade”, gia’  vecchio arnese di propaganda durante le polemiche degli anni Cinquanta, e’ falsa. E per converso, visto che sono partito da un’attualizzazione del discorso, non ha semplicemente fondamento pensare che ristabilire i “casini” porti alla scomparsa della prostituzione illegale. Non ci e’ riuscita, del resto, nessuna forma di legalizzazione della prostituzione, in nessun paese. I due fenomeni continuerebbero ad essere sostanzialmente paralleli, e per debellare la prostituzione illegale si rivelerà comunque necessaria la repressione contro le organizzazioni criminali che rendono disponibile l’offerta.
  • La legislazione delle case chiuse e’ quanto di piu’ lontano esista dalle legislazioni sul tema in vigore nei paesi piu’ avanzati. Nel 1958 solo Spagna, Portogallo e Grecia, paesi che guarda caso sono sempre a farci compagnia nelle statistiche peggiori, mantenevano sistemi simili, ormai smantellati quantomeno da inizio Novecento nell’Europa “civilizzata”. Al di là  delle Alpi, nei decenni successivi, gradualmente, con difficoltà  e retromarce e in modo che quasi mai e’ stato completamente soddisfacente, si sarebbero poi via via sperimentati nuovi modi di regolamentare l’attività, modi che mettevano al centro, oltre agli ovvi aspetti sanitari, la tutela della libertà delle persone che si prostituiscono di scegliere se accettare o rifiutare un cliente e le sue richieste, e la sicurezza della loro incolumità. O almeno si ci si sforza: del resto, quasi ovunque la prostituzione clandestina a gestione criminale resta un problema. Ma la prassi di gestione delle case chiuse nulla aveva di vedere con tutto ciò, essendo fondata di fatto sulla sostanziale reclusione delle lavoratrici della casa, sulla loro separazione dalla società, e sull’obbligo di accogliere le richieste dei clienti. Perché una legislazione del genere dava per scontato l’aspetto essenziale di una società ancora completamente intrappolata nelle strette del dominio maschile, ovvero la necessità di trovare, in un ambiente ben separato a protezione dagli sguardi indiscreti del resto della comunità, lo sfogo per stimoli la cui soddisfazione era data per necessaria e scontata, anche se significava il sacrificio della vita sociale di migliaia di altre persone. Una società solitamente cosi’ indulgente verso istinti e vere o presunte esigenze del proprio genere dominante che, per dirla con una efficace battuta riportata in vita da Daniele Luttazzi ma in realtà ben più antica, “se a partorire fossero gli uomini, si potrebbe abortire anche dal barbiere“.

Ma allora, viene da chiedersi, perché quando si parla di prostituzione quello che invoca la riapertura delle case chiuse salta sempre fuori? Sicuramente per ignoranza, perché di solito chi fa questa proposta non ha idea di cosa fossero le case di tolleranza e di quale fosse la differenza tra quel modo di concepire la prostituzione e quelli, pur diversi tra loro e carichi di problemi, di Amsterdam, Amburgo, Las Vegas. Ma c’e’ anche qualcos’altro. La lettura di Bellassai fa capire quanto, nei toni e negli argomenti, il nostro dibattito pubblico sul tema sia ancora fermo al 1958, e dà  l’impressione che l’assenza di sviluppi sia dovuta a una causa più profonda. Una legislazione che prevedesse luoghi di piacere e di sfogo del desiderio sessuale separati dal resto della societa’  appariva indispensabile, allora, soprattutto perché per la cultura diffusa era necessario promuovere una netta divisione, senza contaminazioni, tra la donna “angelo del focolare” e la “viziosa” tentatrice professionista del sesso. Qualunque approccio piu’ complesso alla natura femminile, soprattutto ma non solo da parte degli uomini, si temeva avrebbe condotto a una disgregazione della società che in realtà sarebbe stata solo disgregazione delle nostre semplificazioni. Come ripetutamente ha spiegato Michel Foucault, il pensatore che più ha riflettuto sui rapporti tra cultura e percezione della corporeità, il bordello rappresentava un necessario elemento di imposizione formale di un ordine, il tentativo disperato di tenere l’ineliminabile disordine lontano dalla nostra vita quotidiana, allo stesso modo in cui nel corso del tempo si erano sviluppati altri luoghi di raccolta e di reclusione come manicomi, carceri, ospedali, nel tentativo di separare dal “nostro” mondo la follia, dalla malvagità  criminale, dalla malattia. Riproporre, oggi, un sistema come quello dei “casini”, riprendendo peraltro argomentazioni e leggende già smentite a più riprese sessant’anni fa, molto spesso rivela in noi uomini (ma non solo) la stessa voglia di prendere il problema della prostituzione e togliercelo dallo sguardo, pensando ancora una volta che la possibilità di far finta di niente sia una buona soluzione.

TAG: bordelli, Ignazio Marino, Michel Foucault, prostituzione, regole, Sandro Bellassai
CAT: economia sommersa, Roma, Storia

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