Le banche, la “bomba atomica” di Alberto Nagel e la necessità di un vero cambio

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17 Settembre 2020

Hanno fatto parecchio rumore le affermazioni dell’AD di Mediobanca, Alberto Nagel, sugli effetti che le regole approvate dalla Banca Centrale Europea nel 2019 in merito alle politiche di accantonamento – la cosiddetta “Calendar Provisioning” – avranno sui bilanci delle banche nei prossimi due o tre anni. Infatti, sentire (giustamente) dire da Nagel – conosciuto per il suo understatement – che queste regole, se applicate nel post Covid, saranno “una bomba atomica” genera un certo scalpore.
Come però spesso accade nel nostro Paese, Nagel sembra perdere di vista il vero problema optando per una via tristemente nota: “mettere una pezza” a favore di una piccola parte degli interessati, senza affrontare la necessità di una modifica radicale nella gestione della crisi di impresa, che deve necessariamente prevedere la gestione operativa delle aziende in crisi e dei conflitti tra soci e creditori, tema centrale, eluso anche dall’ultima riforma della legge fallimentare (oggi sospesa a causa del Covid).
Come è ben noto le (grandi) banche Italiane negli ultimi anni hanno deciso di delegare la gestione dei crediti Unlikely to Pay (gli UTP) – una volta chiamati più prosaicamente “probabili incagli” – a dei servicers esterni. Di queste operazioni si è occupata a lungo la stampa specializzata, per cui non mi addentro in una discussione che rischierebbe di diventare lunga e complessa su pro e contro di tale soluzione.

Visto che  il turnaround aziendale è il mio lavoro mi permetto di sottolineare che le crisi d’impresa non si risolvono guardando solo agli aspetti finanziari ma, se si vuole davvero cercare una soluzione duratura, si deve partire dalla gestione operativa e, poiché molto spesso in Italia azionista e management coincidono, dalla governance aziendale durante la gestione della crisi.
Quando si parla di UTP, a differenza del caso dei Non Performing Loans o NPLs, che sono  debiti di aziende ormai “morte”, si parla infatti di aziende che sono  “vive” e che debbono essere gestite giorno per giorno in una situazione in cui, solo per fare qualche esempio, i fornitori riducono i servizi a causa dei debiti scaduti, i clienti dubitano di poter acquistare i prodotti perché l’azienda potrebbe non essere operativa nel futuro (e quindi si genera un calo delle vendite), le banche spesso chiedono il rientro degli affidamenti concessi a revoca: insomma in un momento in cui tutto rischia di essere risucchiato da un circolo vizioso.
Tra l’altro in queste situazioni la gestione – che normalmente dovrebbe essere fatta per cassa – deve tenere conto delle priorità dettate dal Codice Civile: la miglior soddisfazione dei creditori nell’ordine della seniority degli stessi.
Alla prima lezione di economia di qualsiasi università si insegna che nella waterfall delle passività, in una situazione di crisi, i soci di capitale di rischio vengono per ultimi e che se un’azienda non è in grado di ripagare i propri debiti quando dovuti, il capitale, appunto di rischio, non ha più alcun valore (o detto all’inglese è out of the money); eppure in Italia, grazie alla condiscendenza del sistema, banche comprese, tutto ciò non avviene e il socio continua a gestire la propria azienda  come meglio crede e non sono rari i casi in cui dopo un concordato preventivo lo stesso azionista riesce a riappropriarsi dell’azienda esdebitata a spese dei creditori, finanziari e non.

La gestione della crisi dovrebbe invece assicurare la postergazione dell’interesse dell’azionista e, di conseguenza – come avviene in numerosi ordinamenti stranieri – l’esautorazione di quest’ultimo a favore di una gestione indipendente. Poiché sappiamo tutti quanto frequentemente in Italia management ed azionista coincidano, ciò dovrebbe portare ad una forte pressione da parte dei creditori, affinché qualsiasi possibile conflitto di interesse tra creditori ed azionista venga eliminato.
Nel nostro ordinamento, però, ciò è del tutto impossibile giacché nessun creditore ha la possibilità di indurre cambiamenti nella governance a meno di non passare per il fallimento dell’azienda stessa o in casi limitati da una procedura di Amministrazione Straordinaria (entrambi i casi distruggono valore per il creditore anche a causa dei tempi e dei risultati delle procedure di liquidazione).

La cosa che quindi sorprende (ma non troppo) nelle affermazioni di Nagel, è la assoluta mancanza di una richiesta da parte delle banche – che rappresentano la maggioranza dei creditori finanziari, vista la cronica sotto patrimonializzazione delle aziende e la quasi totale assenza di un vero e proprio mercato dei capitali – di una modifica delle nostre leggi tali da permettere ai creditori di richiedere un immediato congelamento della governance e, qualora lo ritenessero opportuno, la sostituzione del Consiglio di Amministrazione e dei principali manager.
L’assenza di tali accorgimenti in passato era forse giustificata dalla capacità dei creditori di esercitare un elevato grado di moral suasion. Maestro in questo mestiere è stato proprio uno dei predecessori di Nagel: Enrico Cuccia. Ai tempi, infatti, bastava una telefonata di Cuccia per far arrivare Cesare Romiti in Fiat, solo per citare un caso eclatante.

Fare qualche modifica strutturale non richiederebbe peraltro di inventare nulla di nuovo: basterebbe copiare il sistema del Chapter 11 americano che permette ai creditori di chiedere al tribunale la “messa in mora” del debitore e che, se approvata (da un tribunale specializzato), porta anche alla immediata esautorazione degli azionisti (il c.d. sistema del Debtor in Possession o D.I.P.) e alla nomina di uno o più amministratori esecutivi quale il Chief Restructuring Officer o CRO.
Costoro hanno infatti il dovere e la possibilità di gestire le aziende nell’interesse della continuità aziendale e a tutela dei dipendenti e dei creditori, indipendentemente dal volere degli azionisti.Tra l’altro, al concetto di “bomba atomica” Nagel ne associa – ancora una volta correttamente – un secondo ancora più importante nella gestione delle crisi quando dice che sulla base delle attuali regole nessuno si sognerebbe mai di concedere ulteriore credito alle aziende in crisi. Poiché una reale ristrutturazione aziendale – di carattere operativo oltre che finanziario – richiede tempo (e quindi denaro) la assenza del cosiddetto new money diventa un ulteriore intralcio alla soluzione della crisi.Ancora una volta negli USA, grazie alla discontinuità di governance e gestionale oltre che ad una serie di protezioni legali importanti (anch’esse forse da analizzare se non da copiare), si è sviluppato un mercato dedicato al finanziamento delle aziende in crisi, il DIP Financing, che permette alle aziende che navigano in cattive acque di approvvigionarsi dei fondi necessari alla ristrutturazione.

Se cominciassimo ad analizzare i problemi alla radice, forse molti di questi problemi potrebbero trovare delle soluzioni più adeguate e soprattutto sostenibili nel tempo. Diversi anni fa – era l’8 dicembre 2012 – con il Prof. Danovi, dell’università di Bergamo, azzardammo in un articolo pubblicato da MF una proposta che avrebbe potuto cambiare radicalmente il quadro delle gestioni delle crisi in Italia e che, come spiegammo, avrebbe anche potuto generare un incremento del valore degli stock di UTP e NPL nei bilanci delle banche: la possibilità, per i creditori non pagati, di convertire i propri crediti in capitale ordinario (non in strumenti partecipativi come spesso accade) senza dover passare per la approvazione degli azionisti. Otto anni dopo nulla è cambiato e continuiamo a vedere lo struzzo (il sistema, banche in primis) tenere la testa sotto la sabbia chiedendo cambi delle regole che non affrontano il problema.

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CAT: Grandi imprese, Imprenditori

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