Firenze sogna?

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13 Dicembre 2020

L’Arno d’argento, dove si specchierebbe il firmamento, ormai oscurato dall’inquinamento luminoso che caratterizza le nostre città moderne, è sempre lì che scorre. E continuerà a scorrere. Firenze pure è sempre lì, icona di sé stessa, ma ormai divenuta un popoloso deserto. E già, senza più i visitatori è un parco di divertimenti chiuso per pandemia, i padiglioni del divertimento culturale, consumistico e gastronomico sono chiusi fino a chissà quando.

Che botta per una città che aveva scommesso tutto sul turismo massificato, dove qualsiasi sottoscala del centro storico, qualsiasi buco fosse possibile attrezzare con un letto e un tavolino per nobilitarlo a camera da affittare ai viaggiatori, spesso senza alcuna vista se non su cortili interni o trombe di scale, dove le molteplici librerie e alcuni teatri sono divenuti luoghi di spaccio di pizze internazionali, magari ben lontane dalla pizza vera ma più familiari a chi la pizza la inzuppa nel cappuccino, oppure luoghi dove si vendono stracci supergriffati a peso d’oro, o in finti saldi, fatti in Asia o in altri luoghi del mondo in cui la manodopera costa assai poco, dove le case editrici storiche, che erano tante, sono praticamente scomparse, nemmeno trasferite, proprio scomparse, dove tutto era stato consacrato alla visita massificata, fosse il soggiorno ricco al Four Seasons o quello dell’ostello per giovani squattrinati, dove ricchi studenti del centinaio di università americane si disfacevano la sera tra aperitivi iperalcolici o altre preziose sostanze per poi rilasciare il rifiuto del loro stomaco debole sul marciapiede e magari scivolarci sopra, oltre a inondare di urla l’etere circostante, dove tutto un sistema era perfettamente costruito per il consumo e non più per l’utilizzo che i fiorentini un tempo facevano della loro splendida città, pettegola e carina da portarle un bacione da lontano.

La ci ha tant’anni eppure la un n’invecchia mai. Questo dice la celebre canzone. Niente di più illusorio. Firenze finora ha venduto le fotografie di quand’era giovane ma in realtà è decrepita. Tanto decrepita da trovarsi disorientata in un piano d’azione impossibile dopo l’operazione di chirurgia plastica e in seguito a una devastante pandemia che della bellezza vera o presunta se ne fotte.

Le statue presenti sono come soprammobili, il David parcellizzato in mutande, grembiuli, magliette, felpe, colla bandiera italiana abusata e offesa da questa banalizzazione, la Venere del Botticelli sfondo di foto di influencer bionde come lei, nuove veneri di riferimento, forse, il calcio storico puro sfogo di aggressività tutta fiorentina, le farsesche passeggiate in costume per la città… tutto circense, tutto relegato a consumo per un selfie, c’ero anch’io come potete vedere, moltiplicato per milioni di followers anche dall’altra parte del mondo, anch’io ho un pezzo di Firenze e posso dimostrare di esserci stato, ho fotografato la ribollita e la pappa col pomodoro!

Le lamentele degli infiniti ristoratori e albergatori di Firenze, dei rivenditori di stracci tutti uguali, dove il vero artigianato quasi non esiste più, dove non si trovano quasi più le singole botteghe che servivano gli abitanti residenti fino a non troppi anni fa, dal calzolaio alla sarta, dalla merciaia all’orologiaio, suonano sorprendenti perché proprio molti di loro sono stati i maggiori fautori e fruitori di questo consumo sfrenato in una città snaturata.

C’è da dire che le grandi catastrofi, ancor più se accidentali, lasciano un’impronta sulla vita dei luoghi e che l’alluvione del 1966 ha influito non poco alla disgregazione dell’artigianato del centro, oggi estremizzatosi al parossismo. Diversi laboratori e botteghe non riaprirono e forse iniziò così la decadenza della specialità fiorentina.

Oggi qualche artigiano, artigiano del lusso, naturalmente, dice che Firenze deserta sembra com’era cinquant’anni fa, ma si sbaglia ancora. Cinquant’anni fa a Firenze, oltre agli oggetti di artigianato, si produceva una quantità di cultura oggi inimmaginabile, tra letteratura, arte, teatro e musica. L’innovazione partiva da qui e chi vuole può rendersene conto in una sezione del recente Museo del Novecento, se c’è ancora e non è stata relegata nel magazzino. Se l’afflusso turistico di mezzo secolo prima non era invasivo come quello che conoscevamo fino a un anno fa, la città era comunque abitata dai suoi cittadini e quindi era ancora una città, non una quinta teatrale a uso e consumo dei visitatori coll’idea di Firenze divulgata da pseudoriviste di viaggi o dal florilegio dei luoghi comuni. E quando quella stessa artigiana avanza la soluzione che Firenze si salverà coll’artigianato di qualità, sbaglia una volta di più.

Ma perché tutti vogliono pensare ottimisticamente che Firenze si debba rialzare così, come se la pandemia fosse solo una brutta parentesi, capitata per caso o fonte di complotti internazionali per affossare l’economia? Perché tutti, ma proprio tutti, credono che andrà tutto bene, che tutto debba necessariamente tornare come prima, quando proprio la causa del deserto attuale va ricercata nel com’era prima?

Perché oggi l’analisi della realtà compiuta e proposta da chi amministra, e pure da chi vorrebbe amministrare ma non riesce a proporre alcunché di sensato, anzi, il contrario, non solo a livello locale bensì a livello nazionale e globale, non racconta le cose come veramente stanno. Ovviamente coloro se ne guardano bene per vari motivi. Il primo è che dire la verità agli elettori non fa mai bene alla propria poltrona. Il secondo è che, assai più probabilmente, l’analisi di una vera economia è difficile e bisogna aver studiato molto, non solo i corsi della Scuola Radio Elettra, ma anche i trattati di sociologia, storia, geografia economica, antropologia e magari anche un pizzico di storia dell’arte e della musica, dal momento che si gestisce una città che si vuole spacciare come luna park culturale.  E non basta studiare, bisogna viaggiare, osservare, analizzare, rivedere le proprie posizioni, le proprie convinzioni e mostrarsi disponibili a idee realmente rivoluzionarie. Senza codesti ingredienti non c’è verso di capire cos’è Firenze e che tipo di sviluppo può avere.

La società che c’era un tempo non esiste più da un bel pezzo e la società nuova è ignota ai più. La società mobile formata dai visitatori non lascia che rifiuti, e certamente qualche quattrino nelle tasche degli operatori turistici, ma, come ha dimostrato il periodo pandemico, lascia il vuoto. Vuoto causato dagli stessi fiorentini che, per la “vocazione turistica”, hanno contribuito a svuotare il centro storico di loro stessi. Sembra strano ma Firenze non è una vera città cosmopolita, era solamente riempita da turisti e codesto vuoto lo ha dimostrato in quest’anno funesto. Discorso un po’ diverso, ma con punti in comune, per i pratesi che hanno venduto quasi tutte le loro aziende ai cinesi per poi lamentarsi che di cinesi ce n’è troppi e che la città si è snaturata e che una cosa è la Chinatown all’interno di una metropoli che ha altri quartieri, altro è una Chinatown dove i pratesi sembrano diventati ospiti. Nel giro di pochi decenni. E perché le hai vendute le tue aziende? Perché ti pagavano bene. E qui si vede l’attaccamento ai soldi tipici del toscano medio, magistralmente espresso nel Gianni Schicchi di Puccini e Forzano, dove i parenti avidi dell’immensa eredità di Buoso Donati, vedovo senza figli, vengono gabbati da un geniale imitatore professionista. Fiorentini e pratesi gabbati dall’avidità, senza un briciolo di programmazione dovuta alla logica, senza un piano B. Forse senza neanche un piano A.

Quale sarà quindi il futuro di un luogo così, visto che il divertimentificio sarà praticamente escluso dalle future pianificazioni e dai necessari aggiustamenti postpandemici, dal momento che viaggiare intensamente come prima sarà difficile e sconsigliabile e sconsigliato se non si vorrà essere zone rosse un mese sì e uno no, perché questa pandemia è solo un avvertimento di come il sistema consumistico globale, frullatore di cose e di persone, sarà portatore di altre e più gravi pandemie? La società di prima non si può ricostruire perché semplicemente non c’è più, manca totalmente il contesto in cui crebbe quella società. Tutto il corpo di fiorentinità espresso nella letteratura, nella musica, nella cinematografia e che è diventato iconico nell’immaginario collettivo è ormai archeologia. I fiorentini attuali sono in parte schivi e culturalmente poco inclini alle novità, continuano a essere molto autoreferenti e rinchiusi in sé stessi, rivelando una peculiarità provinciale oggi più che mai, rifugiandosi nella mitologia del Rinascimento come se fosse opera dell’attuale società, quasi come se Firenze fosse ancora in grado di produrre quella lunga stagione che allora influenzò l’Europa intera, cioè il mondo conosciuto.

Sarebbe interessante capire cosa potrebbe scaturire da questo vuoto plastico di meraviglie artistiche senza una società stabile che ci viva dentro e che percepisca questo plastico come necessario per la propria identità e crescita, avendo confidenza quotidiana con Michelangelo, Leonardo, Brunelleschi, ma anche con Aldo Palazzeschi, Gianna Manzini, Anna Banti, Paolo Poli, Fosco Maraini e tanti altri.

Di certo la parola terribile, che nessun amministratore né alcun fiorentino o occidentale vorrebbe dire e sentire è “povertà”. Purtroppo la povertà sarà la cifra che contraddistinguerà a lungo il mondo nuovo. Povertà che significherà il rifiuto del superfluo e che relegherà il lusso e ciò che al lusso si associa ai pochissimi che potranno permetterselo. Una volta distrutta la numerosissima classe media, colonna portante di una nazione come la nostra, e potenziale fruitrice anche di una Firenze da mangiare e da bere, sarà difficile mantenere un livello di vita sopra le righe. Hai un bel mostrare la Lamborghini sullo sfondo del Bel Paese. Per chi? Per gli spacciatori che saranno gli unici che potranno permettersela?

Povertà. Forse ridimensionamento, sì, sarebbe più idonea come parola. Ma nessun politico la dirà mai né adesso né tanto meno in campagna elettorale, perché la parola fa paura, riapre antichi scenari postbellici e difficilissimi dove, però, esisteva un’idea di futuro attivo. Forse perché c’erano anche delle ferite fisiche che ricordavano quanto potesse essere tremenda una guerra, palazzi, stazioni e ponti abbattuti erano lì a sollecitare la memoria che bisognava ricostruire. Con una pandemia questo non succede. Cioè, ci sono delle ferite enormi, dei vuoti lasciati da chi non c’è più e postumi tremendi su chi è guarito dal covid19 – non si sa ancora fino a che punto lo sia, perché si scoprono ogni giorno studi nuovi che ne mostrano le devastazioni sui sopravvissuti- ma non si vedono come i crateri delle bombe, esposti alla vista della collettività. E sappiamo tutti quanto faccia comodo non vedere, a volte, e quanto sia corta la memoria degli italiani. E poi nessun politico fornirà mai il piano B perché, semplicemente, non c’è.

Sarà il valzer della povera gente, gli è un semplice valzer, l’è fatto di niente.

Ripensare Firenze, utilizzandola come metafora per un sistema consumistico globale, è una sfida per cervelli fini, con un pensiero, con una visione. Sarebbe bello vedere qualcuno farsi avanti, non necessariamente di Firenze e dintorni.

TAG: alluvione firenze, artigianato, coronavirus, Covid19, economia, firenze, futuro, industria, Museo del Novecento, pandemia, turismo
CAT: Beni culturali, società

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