Costruire è imparare ad amare. Onorare la comunità. L’architettura postpandemica

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1 Giugno 2020

Il covid ci cambierà, ci ha già cambiati e con noi i nostri luoghi, quelli più cari, quelli dell’abitare, del vivere quotidiano, del lavoro. Il dibattito sulla casa, sulla residenza, si è aperto in queste settimane e ha posto l’attenzione su ciò che il futuro muterà non solo in termini di relazioni sociali, ma anche rispetto alla progettazione urbana, a quella degli interni delle singole abitazioni, degli spazi condivisi. Si parla, non a caso, di architettura post-pandemica e molti progettisti, non solo quelli pop conosciuti dal grande pubblico, stanno dando il loro contributo. Con tutta probabilità, come sempre, Milano diverrà l’avanguardia per nuove le “esperienze” del costruire e dell’abitare. Accanto alla metropoli però si fa strada con le sue esigenze la sterminata provincia italica. Quella con “il capannone, la villetta singola, i nani in giardino e la Bmw in garage”, come ebbe a dire il sociologo Albo Bonomi, dove l’emergenza sanitaria ha scoperchiato una crisi economica che perdura dal crollo del mercato immobiliare del 2008. “Sino a pochissimo tempo fa, e per una lunga fase storica” – ci racconta l’architetto Emilio Rambelli socio di “nuovostudio” (Ravenna), che proprio in queste settimane assieme ad un gruppo molto eterogeneo di professionisti sta lavorando proprio attorno ad una proposta che tenga in considerazione il mutato scenario socio-economico – “il progettista era diventato null’altro che una ruota dell’ingranaggio del mercato.

. Il progetto in sé aveva un’importanza limitata, talvolta residuale. Ciò che veniva richiesto era la rapidità del processo (autorizzativo e realizzativo). Del resto, si vendeva tutto o quasi e non si poneva alcuna attenzione sul “perché” e sul “che cosa” si andava edificando.  Oggi questo scenario è mutato. Il mercato immobiliare, di fatto, non c’è più ma l’eredità di quel sistema è rimasto a noi come residuo ingombrante con cui dobbiamo fare i conti. Capita così che, improvvisamente ed in maniera molto “laica”, le proprietà si rivolgano al progettista senza più quelle “prosopopea” data dalla posizione di forza che avevano, privi di idee e spaesati dalla situazione. Chiedono così soccorso all’architetto per un’idea che li possa “salvare”, una speranza che li protegga dal sicuro default. Sono proprietari di aree quasi tutte a destinazione residenziale, che non hanno più acquirenti. Hanno necessità che esse possano continuare a vantare anche una seppur minima appetibilità, una capacità di attrazione per il destinatore finale (chi cerca una nuova casa) ma anche soggetti intermedi interessati: imprese, sviluppatori, consorzi artigiani, sino a dei fondi tematici di investimento.

Ecco allora che gli architetti possono diventare centrali in questa crisi. Occorre pensare a nuovi modelli insediativi, a studi tipologici, a strategie urbane impensabili sino a pochissimo tempo fa. Servono progetti che abbiano nel loro DNA uno scopo, un indirizzo, un obiettivo condiviso, concordato e mediato. In pratica una nuova filosofia del vivere che sussuma in sé un progetto, una comunità di persone, un pensiero rivolto al futuro. Le aree di sviluppo che hanno caratterizzato le nostre periferie, non hanno mai fatto della bellezza il loro punto di riferimento. Sono state pensate attraverso un’urbanizzazione primaria (strade, parcheggi e piccoli parchetti urbani con i giochi per bambini) come un reticolo di lotti edificabili. Oggi in alcune aree abbiamo la possibilità di provare a proporre un disegno, un’idea, una filosofia, che si frapponga a questo caos urbano, offrendo all’utente finale non solo uno “spazio” ma un modello di casa, con tutte le opportune flessibilità dimensionali e distributive, ma innovativo e capace di incarnare le mutate variabili della contemporaneità. È il bello il principio da ricercare. L’etica del resto è figlia dell’estetica. Solo davanti a qualcosa di profondamente fecondo che richiami alla bellezza, possono sorgere percorsi virtuosi capaci di trasformare la crisi in una opportunità per il futuro”.

TAG: #architettura, coronavirus, innovazione
CAT: Architettura e urbanistica

2 Commenti

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  1. panico2006 4 anni fa

    con tutta probabilità l’architettura milanese è quella che scimmiottando il bullismo scenografico internazionale è il paradigma di ciò che si deve superare, voi potete continuare questa narrazione ma è finita

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  2. unoqualsiasi 4 anni fa

    Renzo Piano parlò di “rammendo”, intervento sul tessuto esistente danneggiato, non altra e ulteriore realizzazione. Questo occorrerebbe fare, cosa che l’articolo neppure considera.
    Ad esempio, chiudere lo stupro dei b&B sarebbe piccola cosa per chi ha “grandi visioni” come nel senso di quest’articolo, eppure, eppure, sarebbe gran cosa, grande filosofia.
    Urbanistica, basta con lo stupro, fiscale, basta con la concorrenza sleale, il b&B non rispetta i doveri igienici degli alberghi, che sono costi, è tanti tanti altri problemi.

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