La triste parabola del calcio nella Germania Est

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21 Novembre 2020

All’inizio di novembre del 1990, il Ministro degli Interni della Sassonia Rudolf Krause impose l’annullamento dell’amichevole che le nazionali di calcio della Germania Est e della Germania Ovest avrebbero dovuto disputare a Lipsia il giorno 21: era la caduta dell’ennesima tessera di un domino che era stato innescato dalla nomina di Michail Gorbačëv alla testa dell’URSS, cinque anni prima.
Il piano di riforme lanciato dall’ultimo segretario del PCUS avrebbe (involontariamente) condotto in poco tempo alla dissoluzione del blocco comunista e alla scomparsa della stessa Unione Sovietica. Un tale sconvolgimento non poteva non propagare i suoi effetti anche al mondo dello sport, soprattutto in Germania, il paese diviso in due all’indomani della Seconda guerra mondiale e che era rimasto il fronte più delicato della Guerra fredda per oltre quarant’anni.
Le conseguenze messe in moto dalla perestroika gorbacioviana subirono una brusca e non preventivata accelerata il pomeriggio del 9 novembre 1989: dall’estate, migliaia di tedeschi orientali premevano sulle ambasciate della Germania Ovest dislocate oltrecortina per ottenere l’autorizzazione a passare in Occidente e oceaniche manifestazioni di protesta si tenevano regolarmente nella stessa Repubblica Democratica Tedesca (RDT). Il Partito di Unità Socialista di Germania (Sozialistische Einheitspartei Deutschlands – SED) elaborò una riforma delle regole di espatrio, che alle ore 18 di quel giorno il portavoce del partito Günther Schabowski fu incaricato di presentare alla stampa. Schabowski annunciò che le uscite dal paese sarebbero state significativamente liberalizzate e alla domanda di quando sarebbero entrate in vigore le nuove norme, rispose le fatidiche parole: «Das tritt nach meiner Kenntnis … ist das sofort … unverzüglich (A quanto ne so… subito… immediatamente)». Fu il primo colpo di piccone al Muro di Berlino e l’ultimo chiodo nella bara della RDT.
In quelle stesse ore, a Vienna, la selezione tedesco orientale stava preparandosi all’ultima partita di qualificazione ai Mondiali del 1990. Un pareggio contro l’Austria l’avrebbe ammessa alla fase finale della Coppa del mondo per la seconda volta nella sua storia, ma gli avvenimenti di Berlino attivarono fra gli Ossi un repentino riordinamento di priorità, esistenziali e professionali. Con il miraggio di poter spuntare lucrosi contratti nella Bundesliga, ogni parvenza di concentrazione evaporò e il 15 novembre la Germania Est fu sommersa per 3-0, mancando l’ennesimo appuntamento con la gloria. Se i concomitanti eventi epocali avevano scombussolato anche i cugini dell’Ovest, che vinsero solo in rimonta la decisiva gara contro il Galles, strappando in extremis il biglietto per la rassegna iridata dell’anno successivo, per la Germania Est fu la conferma di un feeling mai sbocciato con il “gioco più bello del mondo”.
Per quanto Simon Kuper e Stefan Szymanski si siano affannati a dimostrare statisticamente che i risultati della RDT sono stati più che onorevoli con riferimento alla popolazione, all’esperienza e al reddito e, sotto tale (esclusivo) rispetto del tutto analoghi a quelli dei Wessi, la percezione prevalente era del tutto opposta. Appellata con il caustico soprannome di “campione del mondo delle amichevoli”, è almeno dubbio che la nazionale della Germania Est abbia mai generato un sincero trasporto nel paese, data la natura totalitaria del regime nato nel 1949, che secondo prassi utilizzava lo sport come strumento di controllo, propaganda e legittimazione, dando così origine a prevedibili sentimenti di disincanto e scetticismo, quando non di aperta avversione.
Sul calcio in particolare si coagulavano posizioni politiche e decisioni gestionali ambivalenti, e vi si combattevano battaglie di potere fra i maggiori notabili del regime. Giudicato troppo aleatorio perché vi si potessero fondare affidabili previsioni di successo e di tornaconto ideologico (come era già balzato agli occhi dei massimi dirigenti del Terzo Reich negli anni ’30), il pallone era tuttavia molto amato dalla popolazione e lo si reputava idoneo a rafforzare il senso di appartenenza al sistema politico-sociale, a rompere l’ostracismo diplomatico patito dalla nazione, a dimostrare la superiorità del socialismo sul capitalismo. Benché fra i vertici del partito riscuotessero più attenzione gli sport prettamente olimpici (atletica, ciclismo, nuoto, ecc.), per il maggior numero di medaglie che assegnavano e per la maggiore prevedibilità degli esiti, il calcio occupò sempre un posto di rilievo nell’universo sportivo tedesco orientale. Non per caso, fra i suoi supremi dirigenti si distinsero Erich Honecker ed Egon Krenz, destinati ad assurgere successivamente al vertice della SED e del governo.
Date queste premesse, il calcio assunse un carattere che diversi studiosi hanno giudicato anomalo nell’ordine politico-sociale di Berlino Est. Vi dominavano un alto livello di interferenza politica; l’indottrinamento dei giocatori frequentemente reclutati come informatori del Ministero per la Sicurezza dello Stato (Stasi) e l’assurda abitudine di “spostare” per mere ragioni politiche le squadre da una città all’altra, così come i giocatori, inibendo alla radice i processi di identificazione da parte dei tifosi. La credibilità del sistema era altresì minata dai pagamenti sottobanco ai calciatori, dall’uso intermittente ma provato del doping e dalla smaccata ingerenza della Stasi dell’onnipotente Erich Mielke a vantaggio della Dinamo Berlino, che fra il 1978 e il 1988 finì per vincere dieci campionati di fila, meritandosi l’odio delle altre squadre e generando aspre dispute persino ai vertici della SED fra i leader di diverse fedi calcistiche. Non desta pertanto meraviglia che i tifosi rivolgessero la loro passione alla peraltro fortissima nazionale della Repubblica Federale Tedesca (RFT) e alle squadre della Bundesliga. Prima che lo sport e il calcio diventassero un altro terreno di confronto nella più generale disputa ideologica Est-Ovest, lo slancio per le prestazioni calcistiche dei “nemici di classe” era stato incoraggiato dalla stessa SED, come fu evidente in occasione dei Mondiali del 1954 conquistati dalla Germania Ovest e raccontati dall’organo della gioventù comunista di Berlino Est come “il più grande successo nella storia del calcio tedesco”.
La passione per gli antagonisti occidentali non era la sola e principale preoccupazione che il regime ricavava dal comportamento delle tifoserie. Ben più allarmante era la violenza associata al calcio, che in Germania aveva radici assai profonde. Già durante la Repubblica di Weimar, incidenti fra supporter occupavano le pagine dei giornali a Breslau, Dresda, Francoforte e Lipsia. Violenti scontri, specialmente a contorno di derby locali, devastarono varie località durante la dittatura nazista e nel dopoguerra rapporti regolari dalle aree rurali del paese segnalavano che le partite – al pari di fiere, festival e addirittura matrimoni – erano teatro di assalti e aggressioni. La situazione peggiorò sensibilmente dopo l’ascesa al potere di Honecker nel 1971, peraltro in linea con un’analoga recrudescenza nel resto d’Europa, soprattutto negli anni ’80, quando il fenomeno degli hooligan lasciò dietro di sé morti e distruzioni. Nella Germania Est, e in altre democrazie popolari, i disordini intorno e negli stadi divennero endemici, assumendo coloriture di stampo antisemita, xenofobo e neo-fascista, soprattutto dopo che le curve furono infiltrate dagli skinhead: fra il 1984 e il 1988, una media di oltre mille arresti a stagione furono eseguiti dalle forze di polizia per sedare le intemperanze dei fan. Era evidente, nel comportamento  delle tifoserie, il rifiuto del sistema socialista, la repulsione nei confronti della solidarietà di classe e il rigetto dei valori del collettivismo socialista.
Il che ci riporta alla premessa di questo racconto. Il 3 novembre 1990, a un mese esatto dalla riunificazione tedesca mediante l’incorporazione dei Länder orientali nella RFT, era in programma a Lipsia il match fra i padroni di casa e la nuova FC Berlino, che aveva preso il posto della famigerata Dinamo, l’undici della Stasi. L’antica ruggine esistente fra le opposte fazioni accese immediatamente gli scontri e i 219 agenti presenti furono in poco tempo sopraffatti dai teppisti. Le ricostruzioni divergenti non consentono ancora oggi di stabilire l’effettivo andamento dei fatti, è chiaro tuttavia che alla stazione di Leutzsch le forze dell’ordine iniziarono a sparare, da 50 a 100 colpi in un minuto: il diciottenne Mike Polley rimase ucciso e altre cinque persone furono ferite dai proiettili.
L’amichevole del 21 novembre 1990 fu conseguentemente annullata per l’acclarata incapacità di garantire la sicurezza degli spettatori. Si trattava del tardo tentativo di riprendere in mano il controllo dell’ordine pubblico, nell’anarchia che era scaturita dalla disintegrazione della RDT: gli ufficiali erano isolati, le direttive confuse e le catene di comando interrotte, né erano pronte a intervenire le istituzioni dell’Ovest. Per comprendere al meglio il repentino precipitare degli eventi di quei giorni, la rapidità con cui mutarono i contesti domestico e internazionale contro tutte le analisi di osservatori e protagonisti, è utile in chiusura ricostruire le tappe che avevano condotto all’organizzazione della prima partita amichevole fra le due Germanie – è noto che si erano la prima (e unica) volta affrontate durante i Mondiali tedeschi del 1974, nella celeberrima sfida decisa dalla rete di Jürgen Sparwasser.
Già all’inizio del dicembre 1989, le due federazioni si erano confrontate su un piano di reciproca autonomia, benché l’impalcatura del calcio dell’Est fosse sul punto di sgretolarsi, come dimostrato dall’emorragia di calciatori che cominciavano a migrare verso il più remunerativo e prestigioso campionato occidentale. Gli incontri partorirono l’idea di un match fra tedeschi da tenersi a Berlino il 29 agosto successivo. Il 2 febbraio 1990, si svolse a Stoccolma il sorteggio per le qualificazioni agli Europei svedesi di due anni dopo. Quando la massiccia mano di Gunnar Nordahl pose nello stesso girone Germania Est e Germania Ovest, un brusio serpeggiò fra i presenti: la sorte passava il testimone alla storia.
“Noi contro di noi”, titolò ironicamente la Bild-Zeitung. Intervistato a caldo, il tecnico occidentale Franz Beckenbauer dichiarò che la riunificazione era chiaramente desiderata, che ci sarebbero però voluti ancora alcuni anni e che lo sport avrebbe senz’altro agito da apripista. Le parti si accordarono per affrontarsi con i due punti in palio e i diritti televisivi furono immediatamente venduti con lauto guadagno reciproco. Il carismatico Hermann Neuberger, capo della Deutscher Fußball-Bund, aveva immaginato che la fusione avrebbe potuto avvenire dopo la rassegna continentale del 1992, mentre il suo omologo orientale covava non proprio infondate speranze di qualificazione, visto che la formazione della RDT poteva finalmente annoverare talenti di assoluto rilievo come Ulf Kirsten, Matthias Sammer Thomas Doll e Andreas Thom. Nessuno insomma sembrava presagire – o persino desiderare – quanto sarebbe accaduto di lì a poche settimane.
Con la firma, le ratifiche parlamentari e l’entrata in vigore del Trattato sull’unione monetaria, economica e sociale, la politica velocizzò oltre ogni ipotesi il processo di riunificazione. La previsione di Beckenbauer fu smentita, il calcio si mise in scia e in luglio la Germania Est si ritirò dagli Europei. Il 12 settembre, a Bruxelles, appena quattordici giocatori si presentarono agli ordini dell’allenatore Eduard Geyer: chi accampò infortuni, chi disse di aver smarrito il passaporto, chi affermò di non sentirsi più tedesco orientale. La prima gara di qualificazione contro il Belgio fu declassata ad amichevole e Sammer sigillò il punteggio finale con una pregevole doppietta. Dato che il match celebrativo del 21 novembre 1990 non fu disputato, la partita nella capitale fiamminga fu l’ultima della storia della Germania Est, che chiuse con 138 vittorie su 239 gare ufficiali.
A dimostrazione che in Germania accade tutto nello stesso mese, il 20 novembre 2010, giusto a 65 anni dall’apertura del processo di Norimberga, gli ex campioni dell’Ovest che avevano vinto il Mondiale italiano del 1990, affrontarono le “Leggende della Germania Est”, nella cosiddetta 20 Jahre Deutsche Fussball Einheit. La partita dell’unità tedesca fu vinta dagli Ossi per 2-1, grazie anche a un rigore controverso: Lothar Matthäus trovò il modo di protestare animatamente con l’arbitro e Berti Vogts preferì richiamarlo in panchina per – si direbbe – eccesso di nervosismo.

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CAT: calcio, Storia

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