San(Fran)Remo, il Carnevale nel Paese della Meloni

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12 Febbraio 2023

Se la televisione avesse oggi un briciolo dell’impact factor mitizzato, l’incrocio fra lo share di Sanremo e il lifestyle e le tematiche di artisti, performance e pipponi avrebbe dovuto portare a un Governo PD radicali, con il mio amico Pierfrancesco Majorino (in bocca al lupo, Pier!) almeno Ministro delle Famiglie e delegazioni da San Francisco planerebbero in elettrico su Roma per capire come si fanno politiche iper-libertarie sui diritti civili.

Con tutta evidenza non è così. Chiuso Sanremo con le sue polemiche telefonate (anzi faxate) per far fare a tutti bella figura coi loro, si torna nel nostro ‘900. E va bene, it’s show business con una spruzzatina di egemonia di quello sardo con gli occhialini, e si sa che gli artisti sono tutti da una parte…

Però questa cosa è una rivelazione e un problema insieme.

La rivelazione è che la televisione, la cattiva maestra di Popper, lo stretto di Suez della cultura popolare il cui controllo determinava il Potere assoluto, non influenza una mazza. Forse perché ha già lobotomizzato, forse perché funziona solo con i messaggi populisti, fatto sta che tutto il liquido di Sanremo, e dei Sanremo precedenti, non ha spostato una paglia in termini di consenso. Chi apprezza sono sempre quelli, chi non apprezza pure. Senza lo specchio ingrandente dei media che parlano dei media e dei politici che parlano dei media sarebbe già stato tutto ricondotto a un complicato monoscopio per anziani, cosa che oggi la televisione è.

Il problema è che la Destra ubriaca di consenso elettorale non ha una cultura che non sia mettere le assi di legno alle finestre per impedire alla contemporaneità di entrare, finché il figlio o il nipote si presenteranno al pranzo di Natale con le unghie pittate, o dire cose da anziani che sanno loro come si fa. Ed è un problema, perché senza cultura, senza cioè un sistema non organico ma nemmeno inesistente di visioni della realtà che vanno oltre il tweet quotidiano, dall’arte alla società, non si dura, men che meno di fanno le rivoluzioni, nemmeno quelle conservatrici fondate sull’avversione per la cultura e i suoi praticanti. Perché sei schiavo del momento, una barca che non sa dove è il porto, o peggio se lo inventa alla bisogna, come quelli che da autonomisti diventano centralisti e poi autonomisti di nuovo. Cultura è anche, prassi ormai desueta pure a sinistra, di albergare in seno i dissidenti, i rompicoglioni egomaniaci che però di dicono in anticipo che sbagli, cosa che i cortigiani si guardano bene dal fare. Farinacci per le cose correnti, Bottai per l’eternità, l’avevano capito anche quella là.

Servirebbe anche perché non tutta la cultura woke è oro colato, a partire da un individualismo esasperato, un’ossessiva centralità dei piantini da cameretta (avrei previsto qualche limone in meno e magari, se devi proprio fare pedagogia, parla pure chessò di lavoro e bollette) e da un’esasperante cultura del piagnisteo sociale. Io che ero grasso e bruttarello al liceo, con il clima di oggi starei ancora alle prese col mutuo quarantennale di lamentele. Poi io sono un libertario di mezza età che vive in città, per cui puoi fare quello che ti pare e piace, ma una cultura senza antagonisti si arravoglia su se stessa e produce orrori, in particolare una così ombelicale come quella vista in questi giorni. Che poi non è altro che la versione alle vongole di quello di cui è pieno Netflix e co.

Una sana competizione anche fra idee servirebbe, non l’organon marxista, ma nemmeno Pillon e Francesco Giubilei (nuovo acquisto, una sagoma) contro Fedez e Rosa Chemical. Si può fare di meglio.

Ah, poi io Sanremo non l’ho visto, tranne i social e le cronache imperdibili di Giulia Cavaliere su Esquire, e quello de relato è il modo migliore.

Provateci anche voi l’anno prossimo, quando Pino Insegno premierà Povia, e sappiatemi dire.

TAG: centrodestra, Cultura, Festival di Sanremo
CAT: costumi sociali, Governo, Media

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