Sulla sopravvalutazione dell’esecutore

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15 Settembre 2022

“…la musica deve essere trasmessa e non interpretata…La capacità dell’esecutore si misura proprio nella sua facoltà di vedere ciò che in realtà si trova nella partitura e non secondo l’ostinato intendimento di cercare quello che egli amerebbe vi fosse”

Igor Strawinskij, Cronache della mia vita

 

 

Non vorrei scivolare nella diagnostica psicanalitica che in Italia è il campo d’azione preferito dagli idioti, dagli strizzacervelli e da chi, per fortunata coincidenza, è ambedue le cose. Tuttavia non so come altro dirlo: trovo che ci sia qualcosa di insano o, se preferite, di profondamente corrotto nella stima esagerata che si tributa all’interprete, soprattutto nell’ambito della musica cosiddetta “colta” (qualificata, inopinatamente e in blocco, come “seria”). Vi scorgo una sinistra sproporzione con l’indifferenza che viene invece tributata a quelli che la musica non la interpretano ma la creano. Chiunque conosce, almeno per sentito dire, Claudio Abbado, Arturo Benedetti Michelangeli, Maria Callas o Glenn Gould ma se tu proponi di abbinare ai loro nomi quelli di compositori che gli siano, più o meno, contemporanei nella maggioranza dei casi, ricevi in risposta il silenzio. Con l’aggravante che quel silenzio non è neppure imbarazzato! Il compositore appare infatti oggi, diffusamente, come un prodotto esotico, un’anomalia genetica della cui esistenza si può anche essere in generale consapevoli, ma solo come lo si è di uno spermatozoo: si sa che l’organismo è, in qualche modo, necessario ma non vale assolutamente la pena di prenderlo in considerazione e individuarlo. Guarda caso, infatti, le pochissime eccezioni contemporanee alla regola sono costituite da quei musicisti che all’attività compositiva hanno abbinato quella di interprete, come Bernstein o Boulez. Questa specie di evidente sperequazione valutativa vige anche – con caratteristiche differenti – in ambiti non paludati quanto quelli a cui ho appena fatto riferimento. Un’occhiata al musical ne dà conferma. Chi non conosce Johnny Deep o Anne Hataway come interpreti di “Sweeney Todd” e de “I miserabili” – la seconda ci ha preso anche un Oscar con una memorabile interpretazione di “I dreamed a dream”? Eppure provate a chiedere chi ha composto questa canzone e vedete cosa vi rispondono – per inciso si chiama Schōnberg…sembra una trovata di Jarry.

Fred Astaire, Ginger Rogers, Gene Kelly, Frank Sinatra…chiedere a qualcuno se sa chi sono verrebbe considerato come uno scherzo o un’offesa. Ma se nominate Sondheim, Loesser e perfino Porter o Berlin (per quanto al primo sia stato dedicato, di recente, un film biografico e il secondo abbia composto White Christmas che chiunque nel mondo ha fischiettato almeno una volta nella vita) in pochi sospetteranno di cosa state parlando. Insomma, c’è una spropositata proliferazione di pianisti, violinisti, chitarristi e ugole d’oro, coi tacchi a spillo e scalzi, coi capelli e senza, col frac e in déshabillé. I bambini prodigio – per lo più con gli occhi a mandorla, per motivi che non mi sono perfettamente chiari – le dita come gamberetti impazziti sui tasti, pullulano su youtube e impazzano anche i concorsi pianistici e violinistici. Ogni tanto capita anche il virtuoso che suona coi piedi – letteralmente…e qualche volta anche metaforicamente. E’ una bolgia di velocisti e di urlatori…ma beato chi ha notizia di quelli che un tempo si chiamavano i “creatori” e che evidentemente sono esattamente l’opposto di quelli che adesso si chiamano “creativi”. Quelli che sono gli artefici delle note che ascoltiamo, che le hanno messe insieme e che ce le hanno donate. E invece di essere grati a questi facciamo i salamelecchi a personaggi che, bravi per quanto si voglia, senza di loro non sarebbero niente e nessuno. E sono proprio questi ultimi a personificare “l’arte” nell’immaginario collettivo. Già tutto questo è sufficientemente folle. Ma c’è anche di peggio. E il peggio è appannaggio proprio di coloro che si credono gli habitué del meglio. Facciamo insieme, vi prego, un esperimento mentale. Scegliamo un esecutore celebre e la sua interpretazione più rinomata. Qualcosa di universalmente riconosciuto come imprescindibile. Le Variazioni Goldberg eseguite da Glenn Gould? Va bene, vada per quelle. Ora scegliamo una canzone celebre che abbiamo ascoltato e che amiamo…che so, ”In the wee small hours of the morning” (musica di David Mann, testo di Bob Hilliard) o qualcosa di più vicino…che ne dite di Both Sides Now di Joni Mitchell o Avec le temps di Leo Ferré, oppure Not a day goes by di Sondheim, Águas de Março di Tom Jobim o magari Here comes the sun di George Harrison…insomma scegliete voi, per me è lo stesso purché sia una canzone che reputate bellissima e, anch’essa, imprescindibile. Bene adesso arriva la parte crudele. Immaginate che per la malvagità di un dio noi siamo chiamati a fare una scelta ulteriore e dolorosa. Tra l’interpretazione di Gould e la canzone di, mettiamo, Leo Ferré possiamo salvarne solo una. L’altra scomparirà per sempre dalla storia dell’umanità e dalla sua memoria. Come se non fosse mai esistita.

Scelta difficile? Non per me. Situazione certamente diabolica ma scelta, in sé, semplicissima. Per quanto mi riguarda, infatti, non avrei neppure un attimo di esitazione: salverei la creazione e butterei via l’interpretazione. E aggiungerò qualcosa che probabilmente qualcuno riterrà intollerante e intollerabile. Reputerei la scelta opposta un vero e proprio crimine contro l’umanità: dovuto ad una mentalità che oramai non è più in grado di distinguere tra l’essenziale e il superfluo, che scambia puntualmente il secondo per il primo, e che, infarcita di culturalismo non sa più da che parte stia l’artefice e da che parte il manutentore, per quanto “creativo”, per quanto “virtuoso”, per quanto “geniale”.

Voi che scelta fareste? Pensateci bene, mi raccomando…

 

TAG: Cultura, Musica
CAT: costumi sociali, Musica

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