Vaccino covid, per il tribunale di Modena il datore può sospendere chi rifiuta

27 Luglio 2021

La continua e incalzante attività dei media, in relazione agli obblighi derivanti dai contratti di lavoro, ci spinge a fare una ricerca su quanto si potrebbe interpretare, in relazione ad eventuali azioni che lo stesso datore di lavoro può porre in essere nei suoi dipendenti che esercitano il proprio diritto a non vaccinarsi.

Il Tribunale di Modena, Presidente Emilia Salvatore, con l’ordinanza n. 2467 dello scorso 23 luglio, ha stabiilito che l’azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19.

Nel dispositivo viene indicato che :

–         “Il datore di lavoro, si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori”.

Viene inoltre fatta menzione dell’intervento della la direttiva UE 2020/739 del 3 giugno 2020, che ha incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro.

Il Dlgs 81/2008, impone la tutela dei lavoratori da agenti di rischio esterni, vi è quindi anche il dovere di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, di proteggere i lavoratori dalle infezioni derivanti dal virus CoVid19.

Non basta più l’uso delle mascherine, ne il datore di lavoro è tenuto a fornire al lavoratore ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione, ormai note.

La sospensione dei lavoratori, appartenenti al settore della sanità privata e che avevano presentato ricorso, era avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legge 44/2021 che ha imposto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, il quale non poteva applicarsi in questo caso.

Il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può però comportare conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell’idoneità alla mansione.

Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiuso vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione.

Il diritto alla libertà di autodeterminazione deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’articolo 41 della Costituzione.

Le attuali condizioni normative pongono, da una parte il datore di lavoro, che può essere sanzionato penalmente se non assicura le condizioni di massima sicurezza sul lavoro, dall’altra, come dicevamo, la libertà del lavoratore di vaccinarsi o no.

L’interpretazione deve necessariamente seguire i dettami costituzionali orientati alla realizzazione degli obiettivi di tutela individuale e collettiva dell’art. 32, coniugato con gli altri valori costituzionali, ivi compresi i doveri di solidarietà sociale pretesi dall’art. 2 Cost., ed impliciti anche nell’art. 32.

Non vi è dubbio che il vaccino costituisca un trattamento sanitario di carattere preventivo

Al momento, la giurisprudenza sembra orientarsi nel rispetto dell’onere contrattuale del dipendente di vaccinarsi, secondo l’applicazione più o meno ampia dell’art. 2087 c.c., che impone al datore di lavoro di adottare anche quelle misure preventive che la scienza, l’esperienza e la tecnica dovessero scoprire.

Successivamente all’approvazione da parte delle autorità medico/scientifiche internazionali e nazionali, il vaccino rientra nella previsione dell’art. 2087.

Tutti gli studi clinici condotti finora, hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19. Lo stesso fatto che le autorità regolatorie abbiano autorizzato la somministrazione del vaccino a partire da 12 anni, serve ad escludere la natura sperimentale dello stesso, ed allo stato attuale non ci sono evidenze scientifiche che provino il rischio di danni irreversibili a lungo termine.

La conclusione è anche sostenuta dall’art. 279 del t.u. sulla sicurezza d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il quale fa obbligo al datore di lavoro di tenere a disposizione vaccini efficaci per quei lavoratori che non siano immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente.

Con la Direttiva 2000/54/CE, sono state fornite agli Stati membri indicazioni relative a rischi connessi ad agenti biologici con cui si può entrare in contatto durante l’attività lavorativa.

Tale direttiva prevede norme per la protezione dei lavoratori contro i rischi derivanti o potenzialmente derivanti dall’esposizione ad agenti biologici durante il lavoro, riguardando tutte le attività in cui i lavoratori sono o possono essere esposti ad agenti biologici a causa della loro attività.

Alla disciplina della direttiva è riconducibile, in particolare, la parte del testo unico sulla tutela della salute e della sicurezza del lavoro relativa “Esposizione ad agenti biologici”: artt. 266 e seguenti del d.lgs. n.81/2008.

Ora, la Commissione europea, è intervenuta con la Direttiva 739/2020, integrando l’allegato III della direttiva del 2000 con l’espressa menzione di SARS COV-2. La direttiva europea che include espressamente il SARS-CoV-2 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione, recepita dalla legge italiana.

Sempre l’art. 20 del medesimo t.u. istituisce una correlazione tra obblighi del datore e quelli del lavoratore disponendo che:

  • “Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo del lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro”;

Vi sono inoltre le indicazioni definite dall’art. 42, comma 2, del d.l. n. 18/2020 convertito nella legge n. 27/2020, che qualifica l’infezione da coronavirus per causa lavorativa come infortunio sul lavoro, esponendo il datore di lavoro agli obblighi di prevenzione e alle responsabilità previste.

L’art. 32 della costituzione, nella parte in cui dispone che nessuno può essere obbligato a sottoporsi a trattamenti sanitari se non per diposizione di legge, si rivolga alle autorità amministrative e sanitarie, dotate di potere impositivo.

Nei rapporti interprivati, non è configurabile un potere impositivo, ma si deve quindi ragionare in termini di clausole ed obbligazioni contrattuali, se una parte contrattuale possa apporre alla controparte un determinato trattamento sanitario, necessario per il rapporto.

In tal caso, non si può sostenere che venga introdotto un obbligo di vaccinazione, contro il divieto dell’art. 32, perché nessuna norma costituzionale impone di contrattare con una parte che costituisca un rischio per la sicurezza, anche a fronte di obbligazioni penalmente sanzionate.

Una condizione simile fu già affrontata dalla suprema Corte con la sent. 218/1994, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, terzo e quinto comma, della legge 5 giugno 1990, n.135 (Programma di interventi urgenti per la prevenzione e la lotta contro l’AIDS, che non prevedeva l’obbligatorietà del vaccino), per contrasto con l’art. 32 Cost., nella parte in cui non prevede accertamenti sanitari dell’assenza di sieropositività all’infezione da HIV come condizione per l’espletamento di attività che comportino rischi per la salute dei terzi.

La giurisprudenza costituzionale ha valorizzato una terza modalità: la raccomandazione, i cui effetti ha parificato a quelli dell’obbligo esplicito.

L’obbligatorietà e la raccomandazione, pur costituendo due tecniche legislative diverse, obbediscono a un medesimo obiettivo, la migliore realizzazione dell’art. 32 Cost. nella sua valenza di tutela della salute come interesse collettivo; non vi è differenza qualitativa tra obbligo e raccomandazione; la vaccinazione in adempimento di ciascuna delle due modalità realizza il dovere di solidarietà implicito nell’art. 32 ed impone allo Stato la medesima tutela in caso di complicanze.

La raccomandazione rappresenta lo stadio evolutivo di un processo culturale tendente a valorizzare la collaborazione del cittadino.

Nello specifico del rapporto di lavoro, per quanto riguarda la mancata inclusione attualmente del vaccino nelle misure di prevenzione indicate nei protocolli condivisi, si fa memoria dei codici disciplinari stabiliti dagli accordi e contratti di lavoro, richiesti dall’art. 7 dello statuto dei lavoratori per delimitare il potere disciplinare previsto dall’art. 2106 codice civile.

La giurisprudenza non ha avuto esitazioni a dichiarare la legittimità di licenziamenti motivati da comportamenti lesivi del c.d. minimo etico o di norme penali, pur non contemplati dal codice disciplinare, o nel caso che questo non fosse affisso. Analogamente non vi può essere dubbio, alla luce della consolidata giurisprudenza sull’art. 2087 nella sua valenza dinamica, che il datore di lavoro sia obbligato ad adottare il vaccino sopravvenuto, e che il lavoratore debba collaborare a norma dell’art. 20 t.u. 81 e 32 Cost.

Per quanto riguarda l’art. 279 t.u. sicurezza, con questa norma , ha previsto, in luogo o in aggiunta ai precedenti singoli agenti infettivi oggetto di obbligo di vaccino, una disposizione di carattere generale sulla protezione dagli agenti biologici, indicati nell’elenco allegato XLVI, integrato con il SARS-CoV-2

Non dunque un dovere per il solo datore di lavoro, ma obbligazioni reciproche collegate dall’art. 20 del medesimo t.u., come è proprio di un rapporto contrattuale.

Il legislatore è inoltre intervenuto in parte con l’art. 42, comma 2, d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. in l. 24 aprile 2020 n. 27, che qualifica, la infezione da coronavirus in occasione di lavoro, come infortunio sul lavoro.

Si è quindi, su tale definizione, costruito un sistema di tutela molto ampio:

–         a) per gli operatori sanitari l’Inail ritiene, in continuità con la circ. 23 novembre 1995 n. 74, che vi sia una elevatissima probabilità che gli stessi vengano a contatto con il coronavirus, indipendentemente dal reparto in cui operano. Quindi, specularmente, elevatissima è la probabilità che questi infettino altri soggetti. In tal caso il datore di lavoro può pretendere la vaccinazione, proprio in virtù della sua responsabilità risarcitoria.

–         b) agli operatori sanitari vanno assimilati i lavoratori in costante contatto con il pubblico, dato l’elevato rischio di contagio: lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite, banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche di supporto, di pulizia, operatori del trasporto infermi, etc.;

–         c) altri lavoratori, non esemplificati, cui si possa applicare la stessa presunzione semplice di contagio. La FAQ (Frequently Asked Questions) Inail del 10.4.2020 menziona ancora, sempre a titolo esemplificativo, gli operatori delle Residenze sanitarie assistenziali (RSA) ed i tassisti. Nella stessa ratio si possono far rientrare le addette alla pulizia negli studi medici, e simili;

–         d) lo stesso strumento presuntivo l’Inail ha applicato all’ infortunio in itinere: nel mezzo di trasporto pubblico il rischio di contagio è più elevato, trattandosi di ambiente confinato con più persone. La conseguenza è duplice: da una parte ai lavoratori che si avvalgano del trasporto pubblico si applica la presunzione di origine professionale, anche se non appartenenti alle categorie professionali esemplificate sopra; dall’altra l’uso del mezzo privato costituisce in questa fase pandemica una ulteriore ipotesi di mezzo necessitato.

Su queste premesse, si può dire che il lavoro prestato durante la fase pandemica costituisce di per sé fattore di aggravamento del rischio di contagio, senza ulteriori distinzioni.

Concludendo sul primo punto, noi riteniamo che in tutti i casi in cui il datore di lavoro può pretendere l’osservanza delle misure di prevenzione stabilite dai protocolli, può pretendere altresì, ai sensi dell’art. 2087 c.c., l’osservanza della misura risolutiva successivamente emersa del vaccino, prevista dall’art. 279 t.u. sicurezza, come integrato dalla l. 159/2020, salvi i casi di rifiuto giustificato da ragioni sanitarie.

Sarebbe invero bizzarro escludere lo strumento principe sopravvenuto, il vaccino, dalle misure obbligatorie quando il vaccino non c’era.

Per quanto riguarda le conseguenze del rifiuto ingiustificato di vaccinarsi, bisogna privilegiare le misure conservative, mediante il répêchage, e considerano il licenziamento come extrema ratio, in mancanza di mansioni immuni dal rischio di contagio.

Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l’utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.

TAG: avv Monica Mandico, COVID-19, vaccini e lavoro
CAT: lavoro dipendente, Napoli

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