“Il futuro è il presente dei giovani”: la lezione di Mattei per l’Italia di oggi
Nel 1955 in occasione dello sviluppo del complesso di San Donato Milanese, Enrico Mattei tiene a sottolineare come il futuro di una società contemporanea debba saper contemplare: “tre cose importanti: la vita, la fede, la scienza. Un trinomio che costituisce una promessa e un auspicio”. Il villaggio di San Donato Milanese cresce dunque all’interno di un equilibrio che vede la spinta economica data dallo sviluppo scientifico e industriale quale vero e proprio aggregatore sociale. La comunità si sviluppa sulla base dello sviluppo economico di Eni che ha come suo fine proprio il senso di una comunità facendo dialogare le proprie diversità e dando spazio alle proprie contraddizioni. Chiesa e scienza come i cardini di uno sguardo rivolto al futuro.
Come scrive in Un senso del futuro (oggi riproposto dalle Edizioni di Comunità) il filosofo e matematico Jacob Bronowski: “La catastrofe ci minaccia soltanto se perpetuiamo questa scissione tra la scienza e il nostro modo quotidiano di vivere di pensare”. Ed Enrico Mattei aveva ben chiaro il significato della gestione del rischio di un’azienda sistemica e altamente tecnologica che – come ricordava lui stesso, presentando la rivista culturale del gruppo Il Gatto Selvatico – si fonda scavando fin nelle viscere della terra. Una gestione del rischio che deve essere dunque legata a doppio filo ad una visione di futuro certamente coraggiosa, ma ben ancorata ad un’idea di comunità e quindi alle relazioni sociali che la generano.
Il futuro di Eni e quindi in buona sostanza dell’Italia in ricostruzione del secondo dopo guerra dipendeva dai giovani e dalla conseguente capacità della società di attivarli e questo Enrico Mattei l’aveva ovviamente ben chiaro. Come ricorda brillantemente Giuseppe Accorinti (per quarant’anni dirigente di primo piano di Eni) in Quando Mattei era l’impresa energetica (Hacca, 2008) Mattei aveva definito delle procedure uniche in Italia nella formazione dei quadri aziendali puntando su giovani (l’età in entrata non doveva superare i trentacinque anni) in grado di identificarsi nello spirito di un’azienda che necessariamente si sarebbe specchiata nel successo come nel fallimento della società italiana.
I quadri dirigenti oltre ad essere in numero estremamente ridotto venivano scelti in maniera quasi sempre diretta da Enrico Mattei che inseguendo competenze e spirito di gruppo non badava ad orientamenti politici (anche a lui molto avversi), ma ad una formazione culturale spesso eclettica che vedeva così fianco a fianco matematici e poeti, ingegneri (molto amati) e sociologi, letterati ed economisti. Una classe dirigente che oggi è decisamente più assimilabile ad aziende come Google o Facebook che all’industria pesante del Novecento, tanto più nell’Italia degli anni Cinquanta. Va da sé che in un un clima in cui i budget erano elevatissimi e la creatività lasciata a briglia sciolta le responsabilità erano altrettanto gravi ed elevate e di conseguenza erano rapide anche le risoluzioni del rapporto di lavoro in caso di fallimento.
La fiducia di Enrico Mattei nei giovani era la medesima che riponeva nella scienza come nell’evoluzione tecnologica. Una fiducia che si basava su un’idea di futuro che era un’idea di società. Eni aveva lo scopo di rilanciare l’industria italiana così come di alfabetizzarla nelle pratiche e nelle procedure. Un lavoro culturale che non si limitava alla fabbrica o agli uffici, ma che raggiungeva la quotidianità delle persone attraverso una promozione culturale organizzata. Non è un caso che tra i dirigenti scelti da Enrico Mattei rientrassero quelli che poi sarebbero diventati tra i più importanti intellettuali italiani, da Cassese a Ruffolo, da Pirani a Spaventa. E molti altri ancora ruotarono attorno al mondo Eni come ad esempio il poeta Attilio Bertolucci chiamato a dirigere Il Gatto Selvatico.
Come scrive Giorgio Ruffolo ne Il libro dei sogni. Una vita a sinistra raccontata a Vanessa Roghi, (Donzelli), una delle prime innovazioni interne proposte da Enrico Mattei furono gli open spaces, visti negli Stati Uniti. Una piccola cosa che spiega bene quale fosse la tensione che Enrico Mattei proiettava in Eni, un’attenzione che nasceva dalle pratiche di lavoro spiccio per arrivare ad una visione sistemica in grado di competere con le grosse compagnie dell’energia. Enrico Mattei non aveva l’ideologia del futuro, ma la pratica, si definiva Ingegnere non Presidente e il futuro non era una suggestione ma un’obiettivo obbligato che nasceva per forza attraverso lo spazio dato a giovani che con tutti i cambiamenti poi avvenuti hanno comunque definito l’identità di Eni nei suoi quadri garantendole innovazione e ricerca.
Quello che Mattei offriva ai propri giovani dirigenti era la possibilità di crescere e di competere, esattamente la medesima cosa offerta ai gruppi industriali privati: energia in cambio di sviluppo.
Ed è anche da qui che passa un’idea di azienda pubblica non solo e non tanto per la proprietà, ma quale bene pubblico, quale vero e proprio bene comune.
Alla chiusura del terzo anno accademico della Scuola di studi superiori sugli idrocarburi, Mattei avverte i giovani diplomati dicendo loro: “Coloro che avranno le qualità necessarie potranno affermarsi con una carriera brillante. Non solamente coloro che verranno con noi, ma anche coloro che lavoreranno nel proprio Paese”. Certo il noi di Mattei dice molto, ma quello veramente identifica la sua visione è il non solamente, ossia la consapevolezza che dare spazio e partecipazione è fondamentale per arricchire e generare nuovi orizzonti, in caso contrario l’alternativa è la miseria. È la non negazione di un solamente spiccio e di basso cabotaggio. Il coraggio di Mattei era quello di una gestione del rischio fatto attraverso gli unici che il rischio lo sanno affrontare per davvero per spirito e biografia: i giovani. I giovani e non solo quelli di una volta verrebbe da dire oggi in cui il coraggio spesso manca o si tramuta in avventatezza, e la responsabilità del rischio è ridotta a mera gestione burocratica. In fondo il futuro non è altro che il presente messo nelle giuste mani.
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