“Secondo” lo si dice in molti modi

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10 Dicembre 2021

Caro Cigno Nero,
qualche sera fa, guardando un noto programma di cucina in tv, sono rimasto colpito dalla reazione stizzita del secondo arrivato alla prova della puntata. In particolare mi ha colpito la sua delusione nel definirsi “eterno secondo” pur avendo ricevuto molti complimenti da chef stellati, che avrebbero riempito d’orgoglio chiunque voglia fare questo mestiere. Con questo spunto mi sono poi tornati in mente diversi episodi della vita, in cui miei compagni (e a volte anche io stesso) si sono sentiti “secondi”, perdendosi così il gusto di un successo.
Questa situazione capita troppo spesso nello sport, nel lavoro, a scuola, nella vita in generale. Sarà forse che siamo una società troppo competitiva? Sarà che siamo indottrinati sin da piccoli a dover arrivare primi per essere soddisfatti? Sarà che siamo appunto indottrinati a vivere la seconda posizione come una sconfitta? Sarà anche questo “insegnamento” ad averci portato a smarrire il senso di comunità e di fratellanza? Grazie,
Demetrio S.

 

Caro Demetrio S.,
già nell’ultimo articolo di questa rubrica era emerso il tema della competizione, come marca ineludibile della nostra società.
Le esistenze hanno assunto la connotazione della gara in così tanti aspetti che l’identità di ciascuno è spesso ridotta ad un enorme cumulo di numeri. Questa follia è riconducibile a ciò che Herbert Marcuse chiamava principio di prestazione, attraverso cui la società ci impone obiettivi funzionali soltanto a perpetuare sé stessa, e secondo cui nella vita bisogna che raggiungiamo posizioni sempre migliori, scalando le classifiche del lavoro, dello sport, come pure degli hobby che abbiamo. Se per tale principio è da encomiare chi si impegna, fatica e si sacrifica persino nel tempo libero, accade che, in barba al principio di piacere, veniamo risucchiati dall’ansia di ottenere buoni risultati in ogni ambito, risultati che siano quantificabili e – soprattutto – riconoscibili. Che fine fa tutta quella fetta di vita non numerabile e non esibibile? Che fine fanno guardare le stelle, bagnarsi sotto la pioggia oppure stringere la mano di qualcuno per il puro piacere di farlo? Senza numeri, senza foto che immortalino e diventino fonte di computabili visualizzazioni, non ci si classifica. Ed è così che le cose importanti, che contano pure se non si contano, finiscono fuori dai bordi del chi siamo.
Questa cultura da hit-parade ci ha educato al potere dell’Uno: il primo della classe o sul lavoro, il vincitore di questa o quella competizione, rispetto al quale tutti gli altri sono semplicemente altri, come amalgama unico di un resto indistinto. Tutti tranne qualcuno: tranne l’ultimo, che occupa la posizione meno invidiabile, perché il nostro cattolico occidente per cui “gli ultimi saranno i primi” (riproponendo così quella logica da classifica da cui voleva redimerci) è lo stesso che neppure si gira a guardarli; e tranne il secondo, intorno a cui ti interroghi, indirizzandoci a una domanda precisa e circoscritta.
Arrivare secondi è un fatto capace di dirci molte cose in teoria – ad esempio, che abbiamo della stoffa o che il nostro impegno ci ripaga –, ma nella pratica sembra dircene una soltanto: “Non siamo primi”.
Ecco perché la prospettiva del secondo è tanto diversa da quella degli altri, per i quali il primo è sufficientemente lontano da non pensarci. Per il secondo, invece, il primo è lì, a un soffio, e catalizza la sua attenzione al punto da non riuscire più a guardare dietro di sé.
La situazione di secondo è dunque così peculiare che potremmo tentare una digressione improbabile.
“Secondo” lo intendiamo in molti modi. Pensiamo alla tavola: al ristorante possiamo scegliere di saziarci e sentirci appagati da un bel primo, piatto completo e bastante a sé stesso, oppure possiamo decidere di gustare un “secondo”, la cui particolarità sta nel non andare mai da solo, ma almeno con un contorno. Il “secondo”, insomma, è sempre insieme a qualcuno/qualcosa con cui si accompagna.
C’è poi il “secondo” del “secondo me”. Usiamo questa espressione per dire che ciò che sosteniamo non è la verità. Per quanto questo o quel pensiero sia per noi una convinzione, anzi, proprio quando a un’idea teniamo davvero, sottolineiamo che si tratta di un “secondo me”, per dire che non è un assoluto – oggettivo, impersonale e riconoscibile da chiunque –. Un pensiero nostro, invece, dietro alle parole nasconde un pezzetto di noi, ed è “secondo me” perché è maturato “tra me e me”, tra me e un mio secondo, nello spazio della riflessione che ha bisogno del dialogo interiore.
E c’è il “secondo” del tempo. Se il Sistema Internazionale sceglie proprio i secondi come unità di misura, nel quotidiano i secondi scompaiono: scompaiono dai quadranti degli orologi analogici, lampeggiano sempre più di rado in quelli digitali. I secondi sono invisibili, eppure sono importanti perché indicano il tempo dell’attesa. “Aspetta un secondo!” diciamo, invitando l’altro a schivare la fretta, a non fermarsi all’uno, alla prima domanda, alla prima impressione, alla prima esitazione. “Aspetta. Aspettami un secondo” perché, in un certo senso, siamo sempre secondi, nella misura in cui siamo imperfetti e tanto umani.
Questi discorsi sono sicuramente fuori fuoco rispetto alla tua domanda, ma riflettere sulle parole è talvolta un modo per inventare sentieri che, per quanto contorti, si dimostrano possibili. Ce lo hanno insegnato tanti filosofi, e Deleuze ne è stato maestro.
Maestri dei numeri, invece, erano Pitagora e i pitagorici, per cui i dispari sono decisamente migliori rispetto ai pari, perché è il dispari che chiude, de-finisce e quindi ordina, al contrario del pari che invece apre, al disordine, all’illimitato, all’indefinito. E il “due”, primo tra i numeri pari, è pitagoricamente simbolo del femminile, che sarà pure imperfetto in quanto pari, ma sa dire benissimo il senso di continuità, di seguito, di attesa, quindi di generosità verso cosa/chi segue e viene dopo.
In quest’ottica potremmo rileggere la posizione di secondo: certo, secondo resta quello che viene dopo, ma potrebbe essere che il dopo sia più importante del prima? E poi, a differenza del primo, il secondo può guardare sia davanti che dietro, sia prima che dopo. Se però il secondo si chiude a guardare solo chi ha davanti, dimentica un po’ la sua natura, ed è così che smette di essere secondo per diventare “secondino”, marcatore sospettoso del primo e assillante carceriere di sé stesso.
Visto che parli di indottrinamento, sarebbe interessante chiedersi in che direzione stia andando l’educazione di cui tutti noi adulti siamo responsabili, indipendentemente dal mestiere che svolgiamo, e considerare con un pizzico di autocritica quanto davvero contino i numeri. Per immaginare un mondo un po’ meno folle, potremmo partire dalle piccole cose quotidiane, come il momento in cui bambine e bambini tornano da scuola: anziché chiedere loro che voto hanno preso all’interrogazione, potremmo iniziare a domandare se la lezione gli è piaciuta e perché.

C’è un’ immagine recente e già indimenticabile: quella che ritrae l’abbraccio tra Tamberi e Barshim all’ultima Olimpiade. Questi atleti hanno fatto accadere ciò che mai era accaduto, né si immaginava potesse accadere. Scegliendo di essere primi insieme, hanno reso due l’Uno, pari il dispari, plurale il singolare. In che senso hanno scompaginato le classifiche? Potrebbe avere a che fare col senso di fratellanza e comunità con cui chiudi la mail?

Irene Merlini

Per scrivere al Cigno Nero: lapostadelcignonero@gmail.com
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TAG: Gian Marco Tamberi, Herbert Marcuse, Mutaz Barshim, olimpiadi, pariedispari, Pitagora, secondoclassificato
CAT: Filosofia, relazioni

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