Stefano De Luigi: “Ho fotografato la Tv anni 90, madre di tutti i populismi”

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3 Febbraio 2020

Fotografo professionista dal 1988, Stefano De Luigi, vive a Parigi e i suoi scatti sono pubblicati dai giornali di tutto il mondo, come Stern, Paris Match, le Monde, Time, New Yorker, EyeMazing, Geo, D di Repubblica, Internazionale. Ha vinto quattro volte il World Press Photo in diverse categorie ma anche il POY e il Leica Oscar Barnack. Attraverso la sua macchina fotografica ha indagato mondi e aspetti sociali e umani diversissimi tra loro ma che ha avuto l’urgenza di raccontare e restituire agli altri esponendo così nelle gallerie più prestigiose del mondo.

Il 5 febbraio inaugurerà a Milano, all’Other Size Gallery by Workness, a cura di Giusi Affronti, Televisiva, una sua personale concentra sull’universo televisivo italiano degli anni Novanta, la sua storia, i backstage e i personaggi. In un periodo compreso tra il 1994, anno del primo governo Berlusconi, e il 2000, segnato dalla messa in onda del Grande Fratello, primo reality show italiano, Stefano De Luigi elabora il suo progetto fotografando i set televisivi di trasmissioni emblematiche di quel periodo creando un archivio di immagini dell’entertainment – di programmi come “Domenica In”, “Non è la Rai”, “I cervelloni” o “Macao” – insieme a una galleria di ritratti di presentatori e starlette, da Mara Venier a Wendy Windham, da Paolo Bonolis a Platinette. Tra satira e inquietudine, la fotografia di De Luigi scruta sotto la superficie di paillettes dello spettacolo televisivo, rappresentato come un microcosmo carnevalesco di showmen, ballerine e creature circensi nate dalla fantasia degli autori tv, e restituisce una rappresentazione umana grottesca che diviene metafora della politica e della società dell’Italia di oggi. A distanza di venticinque anni dalla sua nascita, come una profezia, Televisiva denuncia il sistema di parole urlate e fake news, di facile sensazionalismo e di modelli di comportamento che, tra fascinazione e demagogia, si è traslato dalla dimensione virtuale della televisione al dibattito politico e alla quotidianità del paese reale.

Rocco Casalino, concorrente della prima edizione del “Grande Fratello” Canale 5, mentre si guarda allo specchio.
Rocco Casalino è l’attuale portavoce del Primo Ministro Antonio Conte. Roma studi Mediaset Cinecittà, 2000

Ne abbiamo parlato con Stefano De Luigi, approfittandone per fargli qualche domanda sul suo lavoro.

Nel 2000 hai iniziato a lavorare ad un progetto intitolato Pornoland: un viaggio fotografico sui film pornografici ambientati in tutto il mondo. Nel 2004 Pornoland è diventato un libro e le tue fotografie sono state esposte nelle gallerie più prestigiose del mondo. Come mai hai deciso di indagare sulla pornografia?
 
Vorrei partire dal testo che accompagna le foto di Pornoland, un testo importante, di sedici pagine dello scrittore inglese Martin Amis. Esso è il più bel riconoscimento a questo progetto, al di là delle mostre che sono state una conseguenza logica del libro. Amis ha voluto vedere le foto prima di dare il suo assenso e ha trovato una forte corrispondenza alla sua lettura di quell’universo. La pornografia agli inizi del millennio era una specie di buco nero, ed un fenomeno di società allo stesso tempo. Era utilizzata attraverso messaggi neanche troppo subliminali nella pubblicità, era un fenomeno di moda ma la sua conoscenza per il grande pubblico si limitava alle interviste di alcuni personaggi mediatizzati che ripetevano più o meno la stessa cantilena. Con questo lavoro globale ho voluto raccontare cosa si celava dietro le crepe del muro, o meglio cosa esisteva dentro quel buco nero che pochi esploravano per vedere realmente cosa contenesse. Ne è venuto fuori un lavoro sincero su quello che l’industria della pornografia era realmente, un’enorme macchina da soldi ed un universo realmente triste. Una macchina dei desideri  e dei fantasmi, soprattutto maschili, che stritolava nei suoi ingranaggi i suoi piccoli soldatini, che sognavano solo una cosa: essere riconosciuti come veri attori o veri registi. Liquidandoli, dopo averli consumati dentro e fuori in breve tempo.

Cosa ti spinge a dedicarti a un progetto in particolare?

Un interesse specifico che si trasforma in brevissimo tempo in un’urgenza. La rappresentazione umana letta attraverso il media fotografico, mi ha sempre dato l’opportunità, per la sua lentezza, di fissare dei momenti rivelatori, che condensano dei comportamenti non leggibili immediatamente, ma che rivelano spesso la sostanza stessa del soggetto, creando l’opportunità di un secondo sguardo, più profondo sulla natura delle cose.

Il conduttore e polemista Gianfranco Funari durante una pausa della sua trasmissione “Funari News” su Rete 4 Studi
Mediaset di Roma, 1994

Subito dopo ti sei dedicato alle condizioni di vita delle persone non vedenti e ipovedenti con il progetto Blindness che tu definisci il tuo lavoro principale, anche perché è durato otto anni. Cosa ti ha lasciato questa esperienza?

Si lo considero il mio lavoro più importante perché interroga l’essenza stessa del mio essere fotografo. Una riflessione sull’incontro di due estremi. Non sono il primo fotografo ad essere affascinato dai non vedenti. Essi rappresentano superficialmente l’altro estremo di una retta che ci unisce. Io lavoro con gli occhi come tutti, ma lo faccio in modo dualistico, vedo ma al contempo guardo. Come posso fotografare il mio negativo? Posso in verità, perché ho scoperto quanto un non vedente possa essere più “vedente” che un normodotato. La cecità diventa metafora. Non sono certamente i non vedenti ad essere i più ciechi nel nostro mondo. L’essere visto di continuo da persone non vedenti ha sconvolto tutti i miei preconcetti, questa è la più grande eredità degli otto anni passati con loro, il più grande regalo che da loro ho ricevuto.

Hai vinto quattro volte, in diverse categorie, il World Press Photo. Cosa rappresenta per un fotografo?

Se dicessi che rappresenta solo una linea su una biografia mentirei. Oggi non ha molta importanza ma l’ha avuta in passato, avrei fatto qualunque cosa per ricevere quei premi. Per fortuna sono arrivati distillati negli anni. Ciò mi ha reso felice ma anche capace di relativizzare l’importanza di una consacrazione. Ricevere un premio per il proprio lavoro è un’enorme momento di autostima nel fragile ed estemporaneo consenso al quale le discipline artistiche sono sottomesse. È soprattutto una riserva di energie, per i momenti difficili, per le attraversate del deserto necessarie ad esprimersi sinceramente ed in modo cristallino nel proprio lavoro.

Un cameraman sospeso in attesa della diretta negli studi Mediaset durante il programma “Buona Domenica” su
Canale 5. Roma, 1995

All’Other Size Gallery di Milano il 5 febbraio inaugura la tua mostra Televisiva. Saranno esposti 32 scatti che si concentrano sulla tv italiana degli anni novanta restituendo il fermo immagine di un’epoca drammaticamente contemporanea. Com’è nato questo progetto?
 
È nato dall’indignazione. Dalla rabbia. Dalla delusione di vedere un paese alla deriva. Laboratorio sociologico certo, ma della deriva dei sentimenti, della deriva delle intelligenze e della deriva della partecipazione collettiva a costruire una società più democratica. L’abbandono ad un edonismo superficiale non è stato il peggiore dei mali della televisione di quel periodo. Per me il vero peccato mortale è stato l’abbandono di un’idea di paese profondamente democratico, che si è invece offerto coscientemente al populismo, alla facilità, delegando il proprio destino a degli individui di cultura antidemocratica. Non assumendo, in definitiva il carico, come popolo, delle proprie responsabilità e scelte. Per me questo lavoro è la fotografia esatta di quest’idea.

Irene Pivetti, già presidente della Camera dei Deputati e Platinette prima della registrazione del programma “Bisturi”
in onda su Italia 1. Studi Mediaset Milano, 2004

La tv di Berlusconi cosa ci ha lasciato oggi?

Ci ha lasciato la possibilità di accettare che un leader politico denunci in diretta un cittadino al citofono senza che la maggioranza (la stragrande maggioranza degli italiani) si ribelli a questi atteggiamenti incivili. Ci ha lasciato il disprezzo delle regole, la derisione degli onesti, una società polarizzata tra “noi e loro”, la foga dell’apparire sempre e comunque come un balsamo magico rimedio all’anonimato, il più grave dei peccati.

Per te cos’è la fotografia, dopo una lunga carriera come la tua?
 
La mia voce e la mia identità.

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Stefano De Luigi. Televisiva
A cura di Giusi Affronti
Direzione artistica Nora comunicazione
Sponsor tecnico Linke
Other Size Gallery by Workness, Via Andrea Maffei 1, Milano
6 febbraio – 10 aprile 2020
Dal lunedì al venerdì, h.10 – 18. Sabato e domenica chiuso
Ingresso libero
Info al pubblico t. 02.70006800 | othersizegallery@workness.it

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Foto di copertina: L’attrice Wendy Windham in una parodia di una conferenza stampa alla Casa Bianca, durante il programma “I Cervelloni” nello studio 5 di Cinecittà già mitico studio di Federico Fellini. Roma, 1995.

 

 

TAG: fotografia, milano, Other Size Gallery, Stefano De Luigi, Televisiva
CAT: Fotografia

Un commento

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  1. dionysos41 4 anni fa

    “Per me il vero peccato mortale è stato l’abbandono di un’idea di paese profondamente democratico, che si è invece offerto coscientemente al populismo, alla facilità, delegando il proprio destino a degli individui di cultura antidemocratica”. Lo stiamo ancora pagando.

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