Bielorussia: ‘Non è una nuova Ucraina’
Intervista a Yurii Colombo, corrispondente de Il Manifesto a Mosca
Attivissimo narratore del movimento bielorusso sulle pagine del Manifesto, ma anche sui social, col suo lavoro Yuri Colombo nelle scorse settimane ha contribuito anche a smontare l’idea dell’ennesima ‘rivoluzione colorata’ messa in pedi da qualche servizio segreto occidentale e destinata a finire come l’Ucraina sei anni fa. In realtà ciò che sta succedendo era in larga misura prevedibile e frutto delle enormi contraddizioni politiche e sociali affastellatesi in questi anni nell’ex repubblica sovietica. Coronavirus ed elezioni hanno fatto soltanto da detonatore.
Quanto ha pesato il covid-19 e quanto i problemi accumulatisi negli anni nello spingere la popolazione bielorussa in piazza?
Diciamo che il covid-19 è stato un po’ il colpo di grazia assestato su contraddizioni che si accumulavano da tempo. Lukashenko a lungo è stato negazionista. La Bielorussia è uno dei pochi paesi che non ha fatto quarantene e l’unico in Europa ad aver proseguito il campionato di calcio a porte aperte. Così un paese relativamente chiuso all’esterno e senza turismo ha conosciuto uno sviluppo relativamente significativo del coronavirus. Lukashenko ha fatto dichiarazioni bizzarre e offensive, affermando per esempio che ‘il virus si cura stando all’aria aperta, lavorando tanto e bevendo un po’ di vodka’. Questo atteggiamento ha fatto infuriare la popolazione e il personale degli ospedali, che ora vediamo in prima fila nelle proteste. Inoltre il coronavirus ha mostrato la fragilità economica di un paese dedito alle esportazioni verso la Russia. Gli elementi che covavano sotto la cenere sono tanti. Già nelle scorse due tornate elettorali c’erano state proteste contro i brogli e il mancato rispetto dei diritti dell’opposizione, che però poi si erano placate rapidamente. Esiste, squadernata, una questione democratica gigantesca in un sistema che alterna autoritarismo e paternalismo. E c’è anche una questione salariale: un operaio guadagna 400-500 dollari al mese, ma è una media tenuta su dalle aziende private, che però sono solo il 30% del totale. Il PIL pro capite è di 6.000 dollari annui, la pensione di un operaio 120-130 dollari mensili. E’ un elemento di contraddizione per un paese che in questi decenni ha assistito al ‘miracolo’ economico della vicina Polonia. La Bielorussia è un paese basato strutturalmente sulla manifattura tradizionale a basso valore aggiunto e dove spesso si lavora con tecnologie arretrate. Perciò per sopravvivere esportando in modo competitivo deve basarsi sui bassi salari. La complementarità con l’economia russa – un lascito dell’URSS – è un punto di forza ma anche un tallone d’Achille: la Russia per molto tempo ha sussidiato la Bielorussia vendendole petrolio a prezzi inferiori a quelli di mercato. Idrocarburi che poi la Bielorussia raffinava o rivendeva direttamente all’estero con operazioni di triangolazione. Ma Putin ha smesso di foraggiare Lukashenko dal 2019, cioè da quando ha capito che le prospettive di unificazione tra i due paesi erano una chimera. Dulcis in fundo esiste una questione nazionale, visto che Lukashenko ha fatto di tutto per svilire le caratteristiche peculiari della lingua nazionale, abolendo lo status del bielorusso come lingua nazionale accanto al russo.
In molti hanno paragonato ciò che sta accadendo in Bielorussia con quanto avvenne nel 2014 in Ucraina. E questo serve anche a prefigurare un destino analogo per questa sollevazione popolare. Secondo te sono situazioni sovrapponibili?
Siamo nello stesso spazio ex sovietico, ma davvero le situazioni sono sovrapponibili? In Ucraina ci fu un movimento nazional-collaborazionista con il nazismo forte di centinaia di migliaia di persone. Forse milioni. Solo nella divisione SS Galicina si arruolarono tra 98 mila e 101 mila persone. Il fenomeno fu determinato in parte dalle terribili azioni repressive dello stalinismo durante la collettivizzazione forzata e in parte da fenomeni di fascismo presenti nel movimento nazionalistico banderista, che si richiamava alla guardia di ferro rumena. In Bielorussia, invece, il fenomeno del collaborazionismo fu inesistente: nel gennaio 1944 il principale battaglione di collaborazionisti bielorussi era composto da 592 elementi. In Ucraina l’estrema destra ha giocato (e gioca) un ruolo in piazza e ha condizionato l’immaginario storico della nuova Ucraina – Bandera non era un volgare fascista, ma un terzocampista antistalinista e antinazista – anche se sul piano elettorale Svoboda non raggiunge l’1% e Pravij Sektor è meno radicata di Casa Pound. Inoltre, malgrado il chiaro sostegno di Putin a Lukashenko, nelle piazze di Minsk non si è sentito un solo slogan antirusso.
C’è chi definisce il regime di Lukashenko antimperialista o addirittura ‘socialista’, ma in realtà il Governo ha varato un piano di privatizzazione quasi integrale delle aziende di Stato e attaccato i contratti di lavoro. Puoi parlarci della politica economica e sociale di Lukashenko?
Se si può fare una sintesi, che vale quel che vale, possiamo caratterizzare il regime di Lukashenko come un sistema statal-capitalista con elementi di paternalismo sovietico. Fino a qualche anno fa aveva mantenuto il sistema sovietico di coperture sociali, un welfare assai modesto ma comunque ancora significativo se lo si paragona ai processi di privatizzazione e deregulation avvenuti negli altri paesi ex URSS. Nel settore statale, che ancora oggi produce il 70% del PIL, c’è ancora la sicurezza del posto di lavoro, ma i salari sono molto bassi e fanno su e giù a seconda delle commesse dell’azienda. La disoccupazione è molto bassa – come anche in Russia – ma ciò è dovuto al fatto che i salari sono molto ridotti e un lavoro non qualificato si trova sempre. Lo scorso anno è stata introdotta una miniriforma delle pensioni ora l’età pensionabile per le donne è diventata 58 anni e per gli uomini 63, ma comunque nelle fabbriche questo cambiamento è stato mal digerito, perché il paese è ancora un paese industriale e un operaio vuole andare in pensione presto perché l’aspettativa di vita è bassa – in media 74 anni e per gli operai forse non più di 70. Inoltre nel 2018 è stato introdotto un nuovo sistema fiscale, in cui anche chi non lavora deve comunque pagare un minimo di tasse. Lukashenko l’ha definita ‘la tassa contro i lazzaroni’ e va a colpire chi preferisce lavorare in nero o collabora con aziende straniere. Inoltre sono stati introdotti i contratti di lavoro a chiamata, che anche in Italia conoscete bene.
Quanto conta il mondo del lavoro nella mobilitazione e quanto l’opposizione liberale?
Se la mattanza nelle strade e nelle carceri si è interrotta è grazie ai lavoratori che hanno iniziato a fare assemblee e scioperare. D’altra parte non si è mai arrivati allo sciopero generale, che avrebbe piegato il governo. Quest’ultimo fatto è determinato da molti fattori, che vanno dall’intimidazione alla repressione – molti leader operai sono stati arrestati o licenziati – ma anche dalla diffidenza che gli operai hanno nei confronti della direzione – se così si può chiamare, perché il movimento resta largamente spontaneo – liberale ovvero di Svetlana Tikhanovskaya e del ‘comitato di coordinamento’. In ciò si esprime una forma embrionale di autonomia operaia, pur in termini ancora difensivi. Gli operai la pensano più o meno così: ‘la violenza della polizia non la vogliamo, vogliamo anche la democrazia, ma temiamo che se arriva il “potere occidentale” ci chiudono le fabbriche e ci mettono a lavorare in un ipermercato o semplicemente ci licenziano’. Non sono ancora coscienti della forza di cui dispongono e della potenza che sono riusciti a esprimere per qualche giorno. D’altra parte non si colma il peso di decenni di repressione e autoritarismo in pochi giorni o settimane.
Ogni volta che in un paese avversario degli USA scoppia una mobilitazione antigovernativa ci troviamo di fronte allo scontro tra liberali e nostalgici dell’URSS. I primi la dipingono come una spontanea espressione della ‘società civile’ che vuole l’instaurazione di una democrazia di tipo occidentale, i secondi come una manovra dei servizi segreti americani ed europei, magari finanziata da Soros. Una specie di bipolarismo applicato alla politica estera, in cui i lavoratori (e la sinistra) sembrano incapaci di assumere una posizione indipendente. In Italia ciò ha pesato sul posizionamento dei vari partiti di sinistra e anche dei sindacati. Come se ne esce secondo te?
Difficile dirlo, ma quello che stanno facendo i bielorussi nella loro semplicità è interessante. Anche ora che Putin ha dato un chiaro endorsement a Lukashenko non sono apparsi cartelli o slogan antirussi. Neanche uno. Un movimento non può essere così eterodiretto: ognuno scrive quello che vuole sui cartelli, eppure non se n’è visto neppure uno contro Putin. I bielorussi, insomma, cercano di sottrarsi a questa tenaglia terribile – o con la Russia o con l’Occidente. Conta anche il fatto che bielorussi e russi sono davvero popoli fratelli e ci sono molte famiglie miste.
Ecco appunto, tu vivi a Mosca: che reazione sta avendo la popolazione russa verso questa lotta?
La percezione è che esista un’enorme simpatia per questa lotta. Ogni giorno ci sono presidi davanti all’ambasciata bielorussa. La gente che si sente oppressa dal regime di Putin per mille diversi motivi guarda la tv e si dice ‘se possono farlo loro, allora forse possiamo farlo anche noi’. Ti racconto un aneddoto. La scorsa domenica durante una partita di calcio a Mosca a un certo punto un giocatore bielorusso ha segnato un gol e una parte dello stadio ha iniziato a gridare uno degli slogan che in queste settimane sono stati più frequenti nelle piazze bielorusse: ‘Zivi Belarus! Vivi Bielorussia!’
Un’ultima domanda di stretta attualità: secondo te le recenti minacce di intervento di Putin sono reali o propagandistiche? Putin oggi è abbastanza forte da affrontare un’altra Ucraina?
Si tratta di propaganda fatta per tenersi stretto – a questo punto e visto che per ora regge – Lukashenko. Tutto è possibile, ma è difficile immaginare che il paese sprofondi in una guerra civile. Per occupare un paese ci vogliono decine di migliaia di soldati, è impensabile. E poi quanto durerebbe? Certamente molto meno che a Praga. Putin sta bluffando e forse pensa che la gente si impaurisca quando parla della ‘sua forza di riserva’ a sostegno del satrapo di Minsk. Putin è un ottimo tattico ma un pessimo stratega e lo sta dimostrando anche questa volta.
L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info dell’1 settembre.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.