Segev: “La violenza che arriva da Gaza è ingiustificabile ma inevitabile”

13 Ottobre 2023

“Netanyahu e gli altri continuano a parlare di vittoria. Mi piacerebbe sapere, capire, cos’è la vittoria, perché nessuno spiega cosa significhi questa parola, in questo disastro”. Inizia così, come un torrente in piena, la mia conversazione con Tom Segev, giornalista e storico israeliano di fama mondiale, una delle voci più importanti della nuova storiografia critica dello stato ebraico che, a partire dagli ultimi decenni dello scorso millennio, ha riscritto in maniera irreversibile la storia di chi aveva vinto, cioè di Israele, imponendo il dovere del dubbio, della rilettura, dell’autocritica anche rispetto ai miti fondativi più comodi per il sionismo.  Dopo aver venduto i suoi libri e tenuto corsi universitari in tutto il mondo, con alle spalle 78 anni di vita, spesi in grande parte a dare parole e strumenti ai pacifisti e ai volonterosi del suo paese, oggi mi parla dalla sua casa di Gerusalemme senza nascondere lo scoramento, il dolore, lo smarrimento. “Parlano di eliminare Hamas dalla faccia della terra. Bene. Si tratta di eliminare 300 mila persone. Davvero è questo l’obiettivo? E davvero ha senso, considerando la situazione di Gaza, in cui Hamas controlla tutto?”.
Al di là e perfino prima delle implicazioni etiche, c’è una domanda che va all’essenza: come ha potuto succedere? Non che l’odio per Israele cercasse armi per esprimersi. Ma che se ne potessero accumulare così tante, e in un luogo così vicino e da sempre così ostile. Come ha fatto Israele a non accorgersi che stava capitando?

“Esattamente. Siamo abituati a pensarci come una super potenza dello high tech; siamo capaci di ascoltare ogni telefonata in Gaza, o così vogliamo far credere, e abbiamo costruito una barriera di difesa da miliardi, e poi basta un bulldozer per buttarla giù ed entrare. E poi ci sono volute ore e ore per attivarsi, giorni e giorni per contare davvero i danni. E se qualcuno chiede conto ai rappresentanti del governo di questo gigantesco errore, di questa enorme catena di errori, loro nei dibattiti rispondono: Ok, è vero, è una questione. Ma prima dobbiamo stare uniti che c’è la guerra, e dobbiamo vincere”. E torniamo al discorso da cui siamo partiti. “Mentre invece” prosegue Segev “abbiamo un numero imprecisato di ostaggi israeliani nelle mani di Hamas, circa 200, per lo più civili, donne, anziani, bambini, e dovremmo occuparci principalmente di questo, e di riportarli a casa. Invece no, sentiamo citare frasi minacciose prese dalla Bibbia e canzoni patriottiche, ma dove stiamo andando e con quale strategia nessuno lo spiega. Anche perchè, evidentemente, nessuno lo sa”.
Non c’è solo il cambiamento di percezione di sè e della capacità del proprio stato di garantire sicurezza ai suoi cittadini. Diverso eppure conseguente, secondo Segev, è l’affermarsi di un altro nuovo paradigma. “Oggi il sindaco di Sderot, una cittadina a un km dalla Striscia, nel deserto, ha chiesto al governo di evacuare tutti i suoi 27 mila abitanti. Una volta Israele avrebbe trattato questa richiesta quasi come una diserzione, una fuga da rischi e doveri. Oggi è sembrata a tutti la cosa più normale del mondo”. Un cambiamento radicale che riguarda il senso di essere nazione, e le basi logistiche su cui poggia. O poggiava.

Il cittadino angosciato dalla cronaca ridiventa in poche battute lo storico che pensa alla sua terra, al suo paese, come guardandolo col grandangolo. “Siamo di fronte a un evento di proporzioni epocali. Penso al 1948, alla guerra di indipendenza in cui morì mio padre, e alla Nakba del popolo palestinese. Penso al 1973, alla guerra del Kippur scatenata contro Israele in circostanze analoghe. E penso all’11 Settembre… per una coincidenza comunque curiosa, diciamo così, in Israele si stava parlando molto di Pearl Harbour perchè è stato tradotto pochi mesi fa un vecchio libro, che ora è in tutte le librerie israeliane, e un generale dell’esercito in pensione ha detto e ripetuto che era importante leggerlo, perchè c’era qualcosa che gli israeliani dovevano assolutamente sapere”. Corsi e ricorsi storici, tra un passato lontano e di altri, e un presente schiacciato dall’assenza di prospettiva, di critica, soprattutto di autocritica.

“A Gaza si vive da decenni una condizione inaccettabile, insensata, che non possiamo dimenticare. È un enorme prigione. Questo non giustifica nulla, nessun atto di terrorismo, né le brutalità disumani e la corruzione di Hamas. Ma per quanto ingiusto, io credo che l’ideologia islamica radicale finisca con l’essere per un ragazzo di 14 anni, a Gaza, l’unica cosa che dà una prospettiva. Per quanto assurda, violenta, inaccettabile, è una conseguenza inevitabile” E questo, se riportato a una dimensione politica, torna a interrogare la leadership di Netanyahu.
“Già. Lui aveva l’obiettivo di dimostrare che i territori palestinesi fossero sotto controllo, e che aveva senso la strategia di dividere Gaza, lasciandola ad Hamas, dalla Cisgiordania, nelle mani dell’ANP. Grazie a questa strategia, Gaza è armata fino ai denti, come mai prima. Un enorme fallimento storico, in un paese – Israele, il mio – che invece di interrogarsi si parla ormai tranquillamente di organizzare una seconda Nakba, una seconda distruzione dei palestinesi. Come se davvero fosse una soluzione”. Nei salti della storia, riavvolgendola e rileggendola, si va avanti, e poi si torna indietro. Fino alle origini. “Gaza è sempre stata un problema non gestibile, per Israele. Forse per questo Ben Gurion non volle mai occuparla, proprio lui che nel 1919, giovanissimo, diceva che non c’era modo di costruire una convivenza pacifica in Palestina, perché c’erano due popoli – gli ebrei e gli arabi – che avevano una pretesa integrale, nazionale su quella terra. È un suo pensiero giovanile che ho scoperto lavorando alla sua biografia (uscita nel 2020, ndr) e che trovo molto significativo.  La pace non sarebbe stata mai possibile, e per lui, 30 anni prima della nascita di Israele, il massimo possibile era una gestione permanente di un conflitto ineliminabile, e delle sue ragioni. Del resto, ero e rimango convinto che uno dei più grossi errori del sionismo politico sia stato quello di non restituire i Territori palestinesi il settimo giorno. Il giorno dopo aver vinto la Guerra dei Sei Giorni, nel 1967, bisognava restituire tutto, non iniziare l’occupazione, mettendo sotto scacco ancora una volta i palestinesi, che sono veramente gli orfani del Medioriente”.

Il passato è pieno di giorni sbagliati. Il presente attraverso uno dei più imponenti atti di terrorismo mai conosciuto da una nazione occidentale. Il futuro non sembra promettere nulla di bello. “Personalmente, da storico sostenitore del processo di pace e degli Accordi di Oslo, credo oggi non abbiano funzionato, e in ogni caso che non ci sia possibilità di riprendere quel percorso che portava a due popoli per due stati, anche perchè nessuno dei due, nelle componenti migliori, più sagge e razionali di ciascuna delle due società, ha mai avuto abbastanza da offrire all’altra, per un compromesso  Non credo, allo stesso, alla prospettiva dello stato binazionale, perchè non è realistico dopo decenni di odio reciproco. Evidentemente, sia gli israeliani sia i palestinesi non hanno sofferto abbastanza da capire che la pace è meglio della guerra, e il compromesso è meglio del disastro“.

TAG:
CAT: Geopolitica

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