“Report” e il giornalismo nell’era del relativismo assoluto
Da “Gabanelli Presidente della Repubblica” alle accuse di raccontare cose false e superficiali: cosa c’è veramente dietro al caso-“Report”?
Perché delle polemiche suscitate dalle ultime puntate di “Report” si continua a parlare e scrivere con tanta insistenza? In fondo la questione è molto semplice: se un giornalista afferma cose false, si espone alle conseguenze già previste dalle norme in vigore, ovvero una richiesta di rettifica o, peggio, una querela per diffamazione da parte di chi si sente danneggiato.
Basterebbe questa semplice considerazione per rimettere in ordine le cose. Il solo ipotizzare una chiusura del programma (voce poi ovviamente smentita un po’ da tutti) prima ancora che un’aula di tribunale ne certifichi un’eventuale scorrettezza è inaccettabile. Anche perché persino in caso di condanna – quando mai arrivasse – sarebbe sproporzionato sospendere la trasmissione, altrimenti chissà quanti giornali e programmi avrebbero già dovuto chiudere i battenti.
Anzi, forse paradossalmente una condanna nei confronti di “Report” (che mi pare di definitive non ne abbia nemmeno una, ma vado a memoria e posso sbagliare) potrebbe persino fare bene alla trasmissione stessa, dimostrando che se in un singolo caso ha sbagliato, negli altri ha colto nel segno e quindi non agisce sulla scia di una presunta impunità, ma su fatti concreti.
Eppure, le ultime inchieste (su Coca-Cola, L’Unità, Benigni e soprattutto i vaccini) hanno scatenato un putiferio, che evidentemente va osservato da un’altra angolazione. La prima ineludibile considerazione riguarda il diverso atteggiamento da parte dell’opinione pubblica nei confronti del nuovo corso di “Report”. Non è passato da molto tempo da quando Milena Gabanelli veniva acclamata come una rockstar e persino proposta per la presidenza della Repubblica, come se fare bene il proprio mestiere fosse una dote sufficiente per il ruolo. Travolta dalle polemiche, la squadra oggi guidata da Sigfrido Ranucci viene messa in discussione sul valore più importante per chi fa giornalismo, soprattutto d’inchiesta: la credibilità. Ma è possibile che “Report” abbia gettato al vento deontologia e competenza professionale subito dopo l’uscita di scena della Gabanelli? O che Ranucci, che era il suo-coautore, non abbia lo stesso rigore giornalistico? Ovviamente no, anzi: in questo interessante articolo Linkiesta sostiene che, in fondo, la trasmissione ha sempre difettato di solidità nei propri argomenti, solo che oggi i social consentono di scoprirne le mancanze.
Eppure, Milena Gabanelli è stata autrice di “Report” fin dalla sua nascita, nel 1997, e lo ha condotto fino al novembre del 2016, non esattamente in epoca antidiluviana. Fino a cinque mesi fa, il potere taumaturgico della Rete non era mai riuscito a prenderla in castagna. Mi sembra azzardato sostenere che la forza del sapere diffuso del web abbia sbugiardato chi passava per abile indagatore senza esserlo veramente. Questa ingenua fiducia nella disintermediazione ovviamente nasce dalla sfiducia che invece ha travolto tutti i punti di riferimento tradizionali: le ideologie, i partiti, la fede religiosa e ovviamente anche i media, che vengono tutti identificati come parte di un estabilishment subdolo e mentitore.
Questo mi pare un argomento sul quale riflettere molto approfonditamente, perché la delegittimazione aprioristica alla quale il popolo della Rete sta sottoponendo qualunque potere costituito può essere davvero molto pericolosa. Abbiamo parlato in varie occasioni (anche per quanto riguarda lo stesso caso-“Report”), del Prof. Burioni, al quale va riconosciuto di aver efficacemente ricordato al popolo che la verità scientifica non si sceglie a maggioranza. Quel suo famoso “la scienza non è democratica” postato su Facebook andrebbe scolpito nelle menti di coloro che pensano di poter confutare qualunque cosa attraverso il sentito dire e che prima o poi arriveranno ad incarnare il disastro già ritratto in una famosa vignetta, col passeggero di un aereo che si crede più bravo del pilota e, ottenuto il consenso degli altri viaggiatori, pretende di assumerne il comando.
È proprio l’esempio dei vaccini a rappresentare un discrimine di immediata comprensione: da anni si vocifera di loro presunti effetti negativi, compreso l’autismo, ma fino a quando la comunità scientifica non confermerà queste ipotesi, sarà doveroso per qualunque genitore e per qualunque medico vaccinare i bambini. Può anche darsi che “Report” abbia sbagliato nella puntata sul tema – non è mio scopo difendere per forza i colleghi – ma osservo sommessamente che se destituiamo di qualunque credibilità i giornalisti perché magari hanno obiettivi politici, gli scienziati perché probabilmente sono al soldo delle case farmaceutiche e chiunque divulghi fatti oggettivi per mera furia iconoclasta, ci esponiamo a una relatività devastante, nella quale scie chimiche, rettiliani e qualunque altra scemenza circoli liberamente in Rete vale tanto quanto una realtà oggettiva. In un marasma di questo genere, a stabilire cosa è vero e cosa è giusto sarà quindi il più forte o il più scaltro, con possibili esiti antidemocratici che rappresentano l’esatto contrario di quanto si auspicava agli inizi dello sviluppo di Internet.
Al tema della “verità”, rigorosamente con la “v” minuscola, dedico l’ultima riflessione, perché nella comunicazione essa assume un significato non scontato. Si può ragionevolmente che la verità, dal nostro punto di vista, nemmeno esista: esistono soltanto le diverse narrazioni che se ne possono dare. Tornando all’esempio iniziale, a “Report” è stato contestato – da chi ha sporto querela – di aver affermato il falso. Sarà appunto un giudice a stabilire se questo è successo veramente, applicando una legge piuttosto semplice: sussiste diffamazione se quanto raccontato è falso (ovviamente), se non corrisponde a un pubblico interesse (non posso quindi svelare fatti privati del mio vicino di casa, comune cittadino) e se non viene osservata continenza verbale (posso scrivere che un politico ha rubato soldi pubblici, se è vero, ma non posso per questo aggiungere quella sfilza di epiteti che pure mi verrebbero spontanei).
Fin qui siamo nel campo della legge, ma sul piano tecnico il discorso è molto più ampio. Ad esempio, un bravo comunicatore sa alterare completamente la percezione di un soggetto da parte del pubblico senza mai dire nemmeno una bugia, ma limitandosi a raccontare alcuni aspetti della realtà o a descrivere fatti veri da un’angolazione più favorevole. Lavorando nelle relazioni pubbliche, credo che raccontare bugie sia solo l’estrema ratio, se non altro perché espone a rischi se stessi e il committente, mentre un efficace storytelling può centrare il bersaglio molto più efficacemente
“Report”, ovviamente, fa un altro mestiere. La differenza è ben riassunta dalla famosa frase di George Orwell: “Il giornalismo consiste nel pubblicare qualcosa che qualcuno non vuole che si sappia. Il resto sono pubbliche relazioni”.
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