Le parole giuste: un conflitto su piu’ livelli

29 Marzo 2024

Fiammetta to Manuela
Cara Manuela,
oggi ti scrivo da Milano, dove sono stata invitata a partecipare ad un convengo dal titolo “Le parole giuste” sull’importanza dell’utilizzo di una terminologia corretta, adatta, e mai semplificativa, per cercare di spiegare la complessità di questo conflitto cosi difficile da capire, soprattutto per chi non lo ha vissuto sulla propria pelle e che per tanto, per semplificare, tende a tagliare la complessità a fette, portando avanti interpretazioni manichee tra presunti buoni e cattivi, senza soffermarsi ad analizzare una complessità dovuta anche all’incredibile numero di attori coinvolti, al di fuori di Israele ed Hamas.
Una guerra che, sulla carta, è cominciata con l’attacco del 7 ottobre ma che, di fatto, è cominciata nel 1988, quando l’organizzazione terrorista ha dichiarato pubblicamente, nel suo manifesto, l’intenzione di eliminare Israele dalla mappa. Cosa che, il 7 ottobre, sarebbe potuta succedere e Israele avrebbe potuto cessare di esistere, per sempre, proprio come avevano cercato di fare i Paesi arabi limitrofi quel 14 maggio 1948, il giorno in cui venne dichiarata l’indipendenza dello Stato di Israele.
È una guerra che è, al tempo stesso, locale e globale: una guerra su tre scale, con l’epicentro geografico ed operativo tra i tunnel di Gaza e un quartier generale – collocato a Theran – che manovra ed elargisce fondi su scala transnazionale.
Infine, e forse questo è il terreno di battaglia più pericoloso, una guerra che è anche mediatica e di incitazione all’odio nei confronti del popolo ebraico che vive anche fuori da Israele, e che ormai si trova vittima di un antisemitismo che ricorda i tempi delle leggi razziali del ‘38 quando ai docenti era proibito insegnare. Oggi, in alcuni atenei italiani, è stato impedito ad alcuni docenti o ospiti di parlare a dei convegni, solo per il fatto di essere ebrei.
Come possiamo spiegare tutta questa complessità a chi non è stato direttamente colpito. Non solo il 7 ottobre, ma in tutti questi anni che hanno segnato la storia non solo di Israele ma dell’intero popolo ebraico?

Manuela to Fiammetta
Fiammetta cara,
l’attacco di Hamas contro Israele e la strage compiuta nel territorio adiacente a Gaza, l’incredibile numero di persone uccise, ferite, bruciate, rapite e stuprati, è stato per tutto il Paese uno shock che a volte, penso, sia praticamente impossibile da immaginare, per chi vive lontano da qui.
Impossibile prevedere che un gruppo terroristico ti entri in casa alle 6 e mezzo del mattino mentre sei ancora a letto o stai bevendo il primo caffè, e all’urlo “ammazzare gli ebrei” cerchi di massacrarti in ogni modo possibile e persino non immaginabile.
Famiglie, intere, sono state assassinate. Altre sono state rapite e nascoste nel buco nero dei tunnel di Hamas oltre che essere state sbeffeggiate, colpite e aggredite dalla popolazione civile, esultante durante il loro passaggio attraverso la Striscia.
Non ci sono stati limiti alla crudeltà. Un ragazzino di 11 anni è stato chiuso solo in una stanza per 15 giorni senza vedere anima viva fino a quando è stato unito a un altro gruppo di ostaggi. Una gemella di quattro anni è stata divisa dalla sorellina e dai genitori. Da allora è, misteriosamente, ricomparsa.
1200 persone sono state assassinate in un giorno. Mentre si cercava ancora di capire cosa fosse successo, diventava sempre più urgente la risposta di Israele alla strage.
Era, dunque, necessario dimostrare che chi ci aveva colpito così crudelmente non sarebbe rimasto impunito: mostrare a noi stessi e al mondo che nulla del genere sarebbe mai più accaduto, ed esercitare la propria deterrenza.
Ed è così che è iniziata la guerra che ha provocato la morte di migliaia di gazawi, feriti, distruzione. Immagini terribili di dolore, devastazione, e col passare del tempo, anche di fame. Guardo i notiziari e mi si stringe il cuore.
Subito dopo – e c’è voluto davvero poco – è iniziata la condanna a Israele da parte del resto del mondo, con tanto di accusa di “genocidio”, che altro non è che la demonizzazione dell’ebreo e dell’israeliano. Persino la parola “sionismo” è diventata un insulto. Ora, semplicemente, l’antisemita può finalmente dire a voce alta quello che ha sempre pensato degli ebrei.

Fiammetta to Manuela
Il problema è cosa fare a questo punto, e soprattutto, come fare la cosa giusta quando, qualunque cosa faccia Israele, venga sempre, e comunque, etichettata come sbagliata. Anche quando si tratta di legittima difesa per la minaccia all’esistenza di un intero Paese che non è solo costituto da ebrei ma anche da cristiani, musulmani, drusi, circassi: tutti parte di questo strano Paese, parte del Parlamento, della Corte Suprema e dell’esercito. Molti di loro, il 7 ottobre, hanno sacrificato la loro stessa vita per salvare quella dei loro fratelli ebrei, e continuano a farlo.
Così i giorni passano, i morti aumentano – sia dall’una che dall’altra parte – e, soprattutto, ancora non si vede il ritorno degli ostaggi. Né, sappiamo, se mai torneranno – e quanti tra di loro siano ancora vivi – anche dopo un ipotetico cessate il fuoco.
Ma, soprattutto, anche se dovessero fare ritorno alle case da cui sono stati rapiti, come possiamo immaginare di mandare i nostri figli a scuola quando, a pochi chilometri dalle nostre abitazioni, a Gaza ogni casa, scuola, moschea e ospedale, è stato trasformato in un arsenale militare?
Se distruggere Hamas è impossibile, tutti i soldati che sono tornati dall’enclave – e che hanno visto con i loro occhi quale arsenale sia stato costruito in ogni centimetro quadrato della Striscia – sostengono che distruggere le loro infrastrutture sia, invece, necessario.
Per tanto, mi domando, cosa succederà se ci ritiriamo proprio adesso, avendo lasciato delle operazioni, cruciali per la sopravvivenza di Israele, a metà?

Manuela to Fiammetta
Mi chiedi se questa guerra debba continuare e che senso abbia bloccarla proprio ora che siamo vicini a sconfiggere – militarmente – quel che è rimasto di Hamas, e in questo modo di liberare gli ostaggi.
Io, invece, penso che si debba, semplicemente, finirla, terminarla, concluderla.  Non ci sarà nessuna vittoria – quella che Netanyahu continua a invocare a vanvera – senza il ritorno degli ostaggi. Bibi non ha fretta di riportarli a casa. Finché c’è guerra non ci sarà commissione d’inchiesta su chi ha permesso che avvenisse il 7 ottobre – in particolare sotto il suo operato – mentre lui sta facendo l’impossibile per rimanere al governo.
Comunque vada, Hamas – come tutte le organizzazioni terroristiche – non sparirà, con o senza vittoria, perché nessuna organizzazione terroristica sparisce.
Nel dicembre 2019 – commenta Zvi Bar’el su Haaretz del 25 marzo 2024 – Trump dichiarò vittoria sull’Isis, ma questa organizzazione terrorista, come sappiamo, continua ad esistere: in Russia solo pochi giorni fa ha ucciso oltre 130 persone, mentre in Iran, solo due mesi fa, ne ha uccise un centinaio.
Israele, forse, è riuscita a mostrare che la ferocia di Hamas è molto simile a quella dell’Isis, ma non è riuscita a creare una coalizione internazionale come quella che era stata creata contro l’Isis perché – a differenza dell’Isis, di Al Qaeda o degli Huthi – Hamas non è considerato una minaccia per il mondo.
Il problema, invece, è nella guerra stessa, che può trasformarsi da regionale a totale. E questo il mondo non se lo può permettere. Quindi tanto vale scambiare, rapidamente, i prigionieri palestinesi per i nostri ostaggi, costi quel che costi, e fermare una guerra che in questo momento fa comodo solo a Netanyahu e naturalmente anche a Sinwar, per dimostrare di averla vinta. Invece l’hanno persa entrambi: entrambi hanno portato solo distruzione e sofferenza ai loro popoli.
Ogni giorno che passa viene annunciata la morte di uno dei nostri soldati.
Con la fine del conflitto finirebbe anche questo stillicidio – oltre alla guerra al nord con Hezbollah – e si potrebbe lentamente tornare a ricostruire quelle parti di Israele, al sud e al nord, distrutte dalla guerra. Si approderebbe alle elezioni, si riuscirebbe porre fine alla folle politica di Netanyahu e dei suoi inetti compagni di estrema destra e, finalmente, ci si potrebbe occupare del giorno dopo a Gaza.
Forse ho visto troppe guerre, mentre per molti dei giovani questa è la prima volta.
Credono ancora che distruggendo le infrastrutture si vincerà la guerra. Che con il loro sacrificio si possa risolvere il problema della sicurezza. Ma si sbagliano. Il problema si risolverà solo dialogando.
Non con Hamas – malgrado, de facto una sorta di dialogo avvenga anche adesso – ma con gli altri palestinesi. Esistono.

Fotocredit: https://www.instagram.com/yiddishfeminist/

TAG: Guerra Israele-Hamas
CAT: Medio Oriente

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