La musica bisestile. Giorno 92. Johnny Dorelli
L’IMMENSITÀ
Mia mamma cantava, anche se temeva di essere stonata. Componeva wutkies (piccole poesiole basate su giochi di parole), improvvisava testi, e la sera, per farci addormentare, il brano preferito da me e da mio fratello Carlo era “Lettera a Pinocchio”, cantato da Johnny Dorelli, da lui lanciato nel 1959, quando sono nato io. Mentre mio papà adorava la canzone tradizionale romanesca ma aveva una grandissima curiosità musicale, piena di sfaccettature, mamma preferiva i romantici degli anni 50 e 60, ed il vaudeville britannico (una passione che è riuscita ad attaccarmi).
Johnny Dorelli era il momento di sintesi, perché cantava ciò che piaceva ad entrambi, e lo avevamo in casa ogni domenica mattina: papà e mamma restavano a letto, o comunque ascoltavano una trasmissione alla radio, “Gran Varietà”, in cui regnavano Corrado e Dorelli, insieme agli eroi belli della mia infanzia: Gassman, Sordi, Mastroianni, Manfredi, Mina, Gorny Kramer, Garinei & Giovannini, Fabrizi, Modugno, tutto il meraviglioso mondo in bianco e nero di quando eravamo “poveri ma belli”. Un mondo, vorrei aggiungere, che non si è mai sputtanato, che non ha mai perduto di profondità, di bravura, di bellezza – e che tutti noi rimpiangiamo con dolorosa nostalgia.
Dorelli e Corrado lo gestivano insieme ad Amurri e Verde, ed al suo interno presentavano l’opposto delle atmosfere nazionalpopolari di Canzonissima o del Festival di Sanremo. A Gran Varietà venivano presentate le più grandi canzoni anglosassoni in traduzione italiana, per un pubblico che vuole capire i testi ed ama imparare nuove melodie. Dorelli, con la sua voce da crooner, traduceva Frank Sinatra, Tony Bennett, Harry Nilsson. Non era un cantautore, ma un interprete. Nel 1967 portò al Festival di Sanremo, in coppia con l’autore, una canzone di Don Backy, uno degli artisti truffati da Adriano Celentano con il Clan, che divenne uno dei più grandi successi discografici della storia della musica italiana: “L’immensità”.
Johnny aveva appena compiuto 30 anni ed era all’apice della sua carriera. Nelle settimane successive conobbe la cantautrice belga Catherine Spaak, una delle donne più belle ed affascinanti dell’epoca. Nei dieci anni successivi i due, divenuti marito e moglie, apparivano e cantavano quasi sempre in coppia. Catherine lo convinse ad accettare parti in cui lui fosse buffo – e da lì nacque lo straordinario ladro pasticcione Dorellik. Dopodiché la sua stella tramontò, il matrimonio finì male, lui sposò la bekllona Gloria Guida, che gli è ancora al fianco, ma di tutto ciò mi importa poco.
In quel magico 1967, sulla spinta del successo a Sanremo, Johnny Dorelli pubblicò un vero album, “L’immensità”, che non era una raccolta di brani già portati al successo, ma uno spaccato della musica italiana d’autore che nasce dal jazz del dopoguerra ed ha ancora una vitalità ed intensità straordinari. Quell’album, oggi, vale 500 Euro a copia – non si trova più. Ma le sue canzoni immortali, fortunatamente, sono ancora disponibili. Aggiungo un brano insieme a Catharine Spaak, perché io sono un ragazzino romantico che non dimentica nulla. Nulla. Nulla di nulla.
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