Arianna dalle belle trecce: lamenti, canti, opere e scene madri

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16 Marzo 2019

“– Hai udito, Daniele? – esclamò Stelio rivolgendosi al dottor mistico.
– Quando mai vi fu al mondo un focolare d′intelligenza più fervido? Essi cercavano nell′antichità greca lo spirito di vita: essi tentavano di sviluppare armoniosamente tutte le energie umane, di manifestare con tutti i mezzi dell′arte l′uomo integro.
Giulio Caccini insegnava che all′eccellenza del musico non servono solo le cose particolari ma tutte insieme le cose. La capellatura fulva di Jacopo Peri, dello Zazzerino, fiammeggiava nel canto come quella di Apollo. Nel discorso preposto alla Rappresentazione di Anima et di Corpo Emilio del Cavaliere espone intorno alla formazione del teatro novello le medesime idee che furono attuate a Bayreuth, compresi i precetti del perfetto silenzio, dell′orchestra invisibile e dell′ombra favorevole. Marco da Gagliano, nel celebrare lo spettacolo di festa, fa l′elogio di tutte le arti che vi concorrono ‟di maniera che con l′intelletto vien lusingato in uno stesso tempo ogni sentimento più nobile dalle più dilettevoli arti ch′abbia ritrovato l′ingegno umano”. Non basta?
[…]
– Non basta ancora – disse Antimo della Bella. – Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d′un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde.
– Ecco un′anima eroica, di pura essenza italiana! – assentì Daniele Glàuro con reverenza.
– Egli compì l′opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio – disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte.
– Parlateci di lui, Èffrena.
Stelio vibrò come se ella lo avesse toccato all′improvviso. Ancora una volta la virtù espressiva di quella bocca divulgatrice evocò da una indefinita profondità una figura ideale che risorse come da un sepolcro dinanzi agli occhi dei poeti assumendo il colore e il soffio dell′esistenza. L′antico sonator di viola, vedovo ardente e triste come l′Orfeo della sua favola, apparve nel cenacolo.
Fu un′apparizione di fuoco assai più fiera e più abbagliante di quella che aveva acceso il bacino di San Marco: una infiammata forza di vita, espulsa dall′imo grembo della natura verso l′ansia delle moltitudini; una veemente zona di luce, erotta da un cielo interiore a rischiarare i fondi più segreti della volontà e del desiderio umano; un inaudito verbo, emerso dal silenzio originario a esprimere quel che v′è di eterno e di eternamente indicibile nel cuore del mondo.
– Chi potrebbe parlare di lui se egli medesimo volesse parlarci? – disse l′animatore, turbato, non riuscendo a contenere la crescente pienezza che dentro gli fluttuava come un mare d′angoscia. E guardò la cantatrice; e la vide quale ella eragli apparsa tra la selva degli stromenti, nelle pause, bianca ed esanime come un simulacro. Ma lo spirito di bellezza evocato doveva manifestarsi in lei.
– Arianna! – soggiunse Stelio sommessamente come per risvegliarla.
Ella si levò senza parlare, andò verso una porta, entrò nella stanza attigua. S′udì il fruscio della sua veste, il suono lieve del suo passo; e poi il rumore del cembalo che s′apriva. Tutti erano muti e intenti. Un silenzio musicale occupava il posto rimasto vuoto, nel cenacolo. Una sola volta il soffio del vento inclinò le fiammelle, commosse i fiori. Tutto poi sembrò immobile e ansioso nell′aspettazione.

Lasciatemi morire!

D′un tratto, le anime furono rapite da un potere che parve l′aquila fulminea da cui Dante nel sogno fu rapito insino al fuoco. Esse ardevano insieme nella sempiterna verità, udivano la melodia del mondo passare a traverso la loro estasi luminosa. Lasciatemi morire!
Arianna, ancora Arianna piangeva con un novo dolore? Saliva saliva ancora nel martirio?

E che volete
Che mi conforte
In così dura sorte,
In così gran martire?
Lasciatemi morire!

La voce tacque; la cantatrice non riapparve. L′aria di Claudio Monteverde si compose nel ricordo come un lineamento immutabile.”

G. D’Annunzio, Il fuoco, I. L’Epifania del Fuoco, 1900

 

Bozzetto di Ernst Stern per la prima rappresentazione di “Arianna a Nasso” opera in un atto di Hugo von Hofmannsthal, musica di Richard Strauss (1912)

Così Stelio Èffrena (da ex frenis, senza freni), per contestare il wagnerismo, faceva il panegirico del neonato melodramma fiorentino e di quel suo più celebre realizzatore cremonese dopo aver ascoltato il Lamento d’Arianna di Monteverdi a un convivio veneziano d’arte e d’amore. Poche pagine prima, si parlava di un’altra riesumazione, l’Arianna di Benedetto Marcello, sempre a Venezia in un’altra festa nella Sala del Gran Consiglio, dopo alcune considerazioni di Èffrena sull’arte.

Quando D’Annunzio scrive è il 1900, ma la vicenda si svolge nel 1882, a Venezia. Nel corso del suo focoso romanzo il Vate parla, come fa di solito, dei profondi sentieri dell’arte, e dell’arte italiana in particolare. Erano gli anni postunitari e l’Italia, culla del melodramma, dopo l’abbuffata romantica e verista delle composizioni di Bellini, Rossini, Mercadante, Donizetti, Verdi, Puccini, Cilea, Giordano, Mascagni, ne voleva riscoprire le radici, come pure le radici profonde di una lingua e di una cultura antichissima che affondavano nella classicità. Più d’ogni altra.

La lunga descrizione di Èffrena, infervorato dall’ascolto dell’Arianna di Marcello e poi del Lamento monteverdiano, è l’infervoramento dannunziano della riscoperta degl’italici capolavori del passato, da riscattare dall’oblio dei secoli. Infatti, era recente la riesumazione di tutto quel patrimonio musicale “antico”, sepolto negli archivi e ancora lontano da essere ciò che oggi intendiamo per “repertorio”.

Oggi i concerti di musica antica sono all’ordine del giorno e non c’è festival che non riporti alla luce un’opera dimenticata, addirittura ricostruendone frammenti di varie edizioni e ricomponendo il mosaico, talvolta anche senza senso dello spettacolo, vanificandone la piena riuscita.
Di ognuna di queste opere si registra un DVD, strombazzandolo come l’evento dell’anno, anche se, più frequentemente di quanto non si creda, alcune di codeste opere non meritano sempre una seconda chance. Un secolo e più fa, invece, il repertorio antico era quasi per intero da riscoprire e uno dei primi a rispolverare le frottole, gli ariosi, i recitativi e i madrigali fu Alessandro Parisotti che nei suoi tre volumi di Arie antiche: ad una voce per canto e pianoforte, pubblicati da Ricordi nel 1890, raccolse arie bellissime e dimenticate di autori del Seicento e Settecento italiani come Alessandro Scarlatti, Claudio Monteverdi, Jacopo Peri, Giulio Caccini, Arcangelo del Leuto, Emilio del Cavaliere, Giovanni Battista Pergolesi e molti altri, le quali furono subito inserite nel repertorio dei recital delle star dell’opera. Le arie antiche sarebbero servite per “scaldare la gola”, essendo belcanto puro, come un massaggio per le corde vocali prima di affrontare le arie di eroi ed eroine del “grande repertorio” romantico e verista spalmando la propria voce sul pubblico in estasi. Peraltro Parisotti era anche compositore e il basso continuo di molte arie del Seicento fu rielaborato fantasiosamente e secondo criteri estetici e armonici tardo ottocenteschi, per nulla filologici, ma col sapore rétro del tempo perduto, per cui le arie ‘antiche’ sono in realtà delle arie da salotto ottocentesche e in stile arcaicizzante, dove la linea del canto è quella originale mentre la realizzazione strumentale è tutt’altra cosa.

 

Mezzo busto di Arianna e Bacco in porcellana di Capodimonte di Giuseppe Cappè

 

La filologia musicale non aveva ancora fatto quei passi ai quali noi oggi siamo abituati, restituendo gli originali riveduti ma non ‘scorretti’ (come invece accadde alla fine dell’Ottocento e per buona parte del Novecento) alle orecchie del pubblico. La fascinazione verso il barocco fu tale che Parisotti stesso produsse un famosissimo falso d’autore, spacciando l’arietta Se tu m’ami per opera di Pergolesi, e l’inganno fu talmente ben architettato che ci cascò perfino Igor Stravinsky, il quale incluse l’aria come pergolesiana nel suo balletto cantato Pulcinella (1920), interamente basato su musiche di Pergolesi rielaborate. Ovviamente Èffrena non poteva aver ascoltato il Lamento d’Arianna di Monteverdi perché la sua prima pubblicazione (versione Parisotti) fu nel 1890 e la festa di Venezia descritta nel romanzo era ambientata nel 1882. E non è l’unica discronia che quei volumi di arie antiche di Parisotti produssero. Fu indotto in tentazione anche Guido Gozzano in L’amica di nonna Speranza (Gozzano 1911), dove l’autore descrive il salotto della nonna del 1850, in cui la nonna Speranza e l’amica Carlotta Capenna si mettono al piano, Carlotta canta e Speranza suona:

(…) le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.
Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leuto e d’ Alessandro Scarlatti.
Innamorati dispersi, gementi il core e l’augello,
languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi (…)

G. Gozzano, I colloqui, 1911

Se per D’Annunzio il Seicento era l’alba dell’arte musicale e letteraria, per Gozzano sembrava essere l’esatto opposto. I due volti del decadentismo. Di fatto D’Annunzio si occupò di una collana tutta votata alla riscoperta e alla valorizzazione del patrimonio musicale italico Classici della musica italiana, riscoprendo le antiche musiche del tardo Rinascimento e del Barocco.

Ma questo interessamento di D’Annunzio per la musica antica d’Italia e, soprattutto, le cose che fa dire a Stelio Èffrena nel Fuoco, come nota Gianni Oliva, hanno un’altra fonte, nient’affatto italica (Oliva 2015, 5-16): Histoire de l’Opéra en Europe avant Lully et Scarlatti: les origines du theatre lyrique moderne di Romain Rolland (Rolland 1895). Si potrebbe dire che D’Annunzio lo citi pedissequamente senza citarlo. In quest’opera è descritta la triste vita di Claudio Monteverdi, soprattutto in quegli anni in cui compose L’Arianna, facendo rispecchiare i propri dolori familiari e professionali nell’abbandono e nel lamento della fanciulla minoide. D’Annunzio lesse quest’opera nel 1896 e incontrò Rolland a Roma nel 1897. Fu fondamentale per le sue convinzioni musicali che furono poi trasposte mitograficamente in un’origine epica e unica come lui usava fare, ustionato da passioni e fuochi assoluti. L’anti-wagnerismo dannunziano, espresso nel Fuoco, pone proprio come contraltare la purezza dell’opera monteverdiana e della produzione melodrammatica delle origini fiorentine, ma collocando la corona imperiale e celeste sul capo del divino Claudio.

Peraltro il Lamento d’Arianna che Stelio avrebbe ascoltato a Venezia dalla voce della cantante Donatella Arvale non poteva essere che quello rielaborato da Parisotti: un frammento del frammento, solo la parte iniziale, una breve pagina. Il lamento, infatti, non era ancora stato pubblicato integralmente. Se Èffrena avesse ascoltato l’intero brano, avrebbe aggiunto che l’inventore del Leitmotiv non era stato Wagner (che peraltro non ne fu l’inventore bensì il più grande e noto utilizzatore) ma Monteverdi. Il perché lo vedremo più avanti. Andiamo con ordine.

Il Lamento d’Arianna è l’unico frammento superstite della seconda opera di Claudio Monteverdi. Dopo il successo del 1607 con L’Orfeo, stregando un pubblico ristretto, prima all’Accademia degli Invaghiti e poi al Palazzo Ducale di Mantova, Monteverdi bissò con L’Arianna nel 1608: un trionfo senza precedenti, grazie anche al numero di spettatori presenti a Mantova per la circostanza. La circostanza era la celebrazione delle nozze del duca Francesco IV Gonzaga con Margherita di Savoia, gli spettatori furono ben seimila, come riferisce lo storico di corte Federico Follino, e il Teatro Ducale ne poteva ospitare assai di meno, anche se l’effettiva capienza non è riportata. Il duca padre fu costretto a entrare e uscire di continuo dal teatro per trattenere la folla che voleva entrare, escludendo anche la propria nobiltà. Tutto esaurito. Così ci informa nel suo preziosissimo saggio I casi di Arianna il musicologo Irving Godt (Godt 1994, 315-357).

L’esposizione all’attenzione di un pubblico internazionale di cortigiani provenienti da tutta Europa venuti a Mantova per l’evento fu l’innesco del successo personale di Monteverdi, il quale affrontava, come abbiamo già visto nel Fuoco, vicende personali e familiari tristissime. Il Duca di Mantova Vincenzo I, padre dell’erede sposo, con quell’evento straordinario e all’ultima moda avrebbe voluto accrescere il prestigio del casato dei Gonzaga ma forse accrebbe più quello del compositore. Stavolta il sontuoso libretto era di Ottavio Rinuccini, il poeta della Camerata Fiorentina, con versi musicali e quanto mai adatti al genere di dramma in musica di recente invenzione. Il successo e la commozione suscitati dalla nuova opera furono straordinari, come riferisce sempre Godt, e il Lamento della protagonista, per l’abbandono di Teseo nell’isola di Nasso, diventò immediatamente un hit e conobbe fortune e diffusioni mai sospettate e insolite per l’epoca. Monteverdi stesso, qualche anno dopo, ne fece un madrigale a cinque voci nel suo IV Libro de’ Madrigali (1614) e il brano servì spesso da modello per altri autori, dalla Sicilia all’Inghilterra, che composero i loro Lamenti d’Arianna, alcuni come monodia, altri come madrigale a più voci. Tra i tanti: Giulio Cesare Antonelli (1611), Saverio Bonini (1613), Claudio Pari (1619), Antonio il Verso (1619), Pellegrino Possenti (1623), Francesco Costa (1626) e due britannici, in traduzione inglese: Henry Lawes, Ariadne Deserted (1640) e Robert Cambert, Lament of Ariane (1659).

Monteverdi pubblicò a stampa il suo Lamento monodico solamente nel 1623, insieme ad altre opere a voce sola e basso continuo, come aria staccata, senza i commenti dolorosi dei pescatori che assistono e spezzano il pianto di Arianna, come se fosse un lungo monologo. Lo stesso materiale musicale fu riutilizzato da Monteverdi nella Selva morale e spirituale del 1641, come Pianto della Madonna, in lingua latina. Singolare che di un’intera opera scomparsa, l’unica parte a sopravvivere fosse proprio il Lamento della protagonista, peraltro giuntoci in più versioni attraverso varie fonti, nessuna di Monteverdi, a parte quella di Ghent (a stampa e non manoscritta), ma copiata da ammiratori della sua musica e di questo brano veramente speciale.
Le fonti sono molteplici e non sempre degne di attendibilità. Spesso ci sono differenze ritmiche e musicali tra le varie monodie. Il filo di Arianna si annoda ribaldamente nel labirinto delle fonti e confonde chi volesse trovare chiarezza…

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CAT: Musica, Teatro

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