Da quando Renzi domina la scena politica italiana, dalla medesima paiono usciti gli intellettuali. Quelli rimasti sono stati rapidamente derubricati al ruolo un po’ antipatico del grillo parlante della favola di Pinocchio.
Chi critica il re, non concedendo l’epoca che gli si tagli la lingua, viene prima isolato, poi ridicolizzato e infine confinato nell’oblio peggiore che esiste ai giorni nostri,quello mediatico.
Ne sanno qualcosa i vari Settis, Zagrebelsky, Rodota‘,ormai costretti a vedere i loro titoli e le loro pubblicazioni come pudenda da coprire. Ma almeno costoro parlano. Si espongono. Le danno e le buscano.
Per pochi che esprimono la loro opinione altri, troppi, tacciono, quasi colpiti da una sorta di malia che si traduce in disinteresse, in un buen retiro dalle cose del mondo, di questo mondo dominato da una classe politica di quarantenni rampanti, temerari e un filino improvvisati.
Moretti, il fustigatore che fu della sinistra, ha dedicato alla madre la sua ultima fatica.
“Mia madre” rappresenta un film apolitico per definizione; fin dal titolo sappiamo cosa ci aspetta: un percorso freudiano, l’elaborazione di una assenza definitiva (forse la più grave di tutte) e non certo un insegnamento collettivo, uno squarcio, un orizzonte possibile.
C’è Saviano si dirà…ma Saviano è uno scrittore di un solo libro veramente riuscito e giustamente famoso che lo ha però fatalmente relegato ad eterno interprete di una non ben definita questione meridionale 2.0 come, si perdoni l’ardito paragone, Susanna Tamaro ha rappresentato per un decennio la glicemia dell’amore e dei buoni sentimenti.
Ovviamente attorno ad un giovane sovrano, come è tradizione, fioriscono e prosperano i dispensatori di panegirici, gli schierati, che per il referendum sulla riforma costituzionale trasformato dallo stesso Renzi (e non da altri) in un plebiscito napoleonico, già affilano le penne: non ci interessano.
Non sono intellettuali, non fanno coscienza, al limite giocano ad inquinarla, a distruggerla.
Infine, ci sono i “critici”.
Sono quelli che non plaudono mai apertamente a Renzi, che anzi ne stigmatizzano gli errori, ma che alla fine con oblique torsioni gli fanno giungere il loro sostegno, o almeno, il loro fintamente rassegnato appoggio.
Michele Serra che dalle colonne di Repubblica, dispensa pillole di saggezza lette e ammirate, oltre che assai condivise sui social anche e soprattutto dai più fieri oppositori del renzismo, si è fatto esegeta del “sofferto” Si alla riforma costituzionale di un altro critico e telegenico intellettuale, Massimo Cacciari.
Serra in sostanza pur dichiarandosi antropologicamente opposto a Renzi, ma non antirenziano (sic!), identifica nel rottamatore la nemesi della sinistra che per decenni ha commesso gravissimi errori e che ora dovrebbe chinare il capo e adeguarsi ad un corso storico impregnato quasi di una mistica ineluttabilità.
Il Presidente del Consiglio fa capolino da L’ Amaca, come un deus ex machina che compie, non si sa quanto consapevolmente, un destino che era scritto da tempo, una brutta storia di cui gli autori (i colpevoli) sono altri e non lui.
Serra si dipinge come un naufrago senza più certezze, trascinato da una forza superiore cui si affida e che lo porterà fino alla cabina elettorale del referendum ove, senza entusiasmo, darà il proprio assenso alla riforma.
Il suo schierarsi non è sul merito ma mirabilmente costruito sul paragone impietoso fra l’impotenza nociva di una parte politica che lo ha nutrito e che lui ha contributo ad alimentare, e il potente, quasi futuristico, vorticoso efficentismo di un nuovo che ha nel fare, nel produrre, nel correre, le sue caratteristiche. Il cosa in realtà faccia, produca, il dove porti questa corsa indiavolata sono evidentemente per lui un dettaglio.
Come Cacciari, anche Serra, non “ha la faccia” per dire No. E lancia una bomba nel fronte degli oppositori seminando il più tremendo dei dubbi, riassumibile nel monito:” prima di votare contro alla sua riforma pensa a quanto Renzi debba anche a te che non hai mai saputo far nulla e che ora attacchi chi prova a fare qualcosa”.
Aldilà dell’arzigogolo del ragionamento dipanato in parole sempre efficaci, l’autore non fa altro che impreziosire la vulgata peggiore dei Renziani, cercando di offrirle una patente di dignità che le permetta di attraversare i marosi agitati da quelli (sempre i soliti, sempre pochi) che provano a inchiodare il dibattito sui contenuti di una riforma e non sui significati impropri che la dialettica politica de momento le continua ad appioppare.
Il nostro dovrebbe sapere che stiamo parlando di Costituzione e non di Partito Democratico, e tantomeno di un redde rationem per la sinistra intera di questo paese, che di certo ha manifestato negli anni una urticante, verbosa inerzia ma che non merita di essere azzerata, annichilita e archiviata in nome di un cambiamento che ancora troppo si identifica con le idee, le bizze, e magari gli interessi di un uomo solo e di una maggioranza plasmata a sua immagine.
Come la casalinga che si taglia un dito affettando le cipolle non pensa di tagliarsi anche gli altri quattro, ma si infila un cerotto e continua a cucinare, così non mi pare francamente edificante che chi ha raggiunto la consapevolezza di aver fatto sbagli, debba attendere uno sbaglio madornale confidando che esso coincida con una catarsi.
Serra e Cacciari nel vestire i panni pensosi della autocritica non possono smettere così disinvoltamente quelli della critica e non possono nemmeno chiedere alla composita galassia della sinistra di esprimere un voto turandosi il naso, solo per non essere ancora una volta ostacolo al “cambiamento”.
O ci spiegano in cosa consta questo progresso, argomentandolo per bene, oppure si rassegnino (ma davvero) al fatto, che nell’epoca del liquido sociale e politico, un posizionamento ragionato e coerente, oltre le fazioni, non è dato.
Dai “Venerati Maestri” punzecchiati dalla bellissima ironia del compianto Edmondo Berselli stiamo passando ai “Cari Fottutissimi Amici” di Mario Monicelli. E non è un bene.
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