Pensando a Tony e Marcello, due ragazzi sul Golden Gate

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11 Marzo 2021

Ero piccolo. Un topolino timido e spaventato, cui avevano regalato un golf adorabile a scacchi bianchi e blu, uguale a quello di mio fratello Carlo. Mamma e Nonna ci portavano a Villa Celimontana ed al cinemino di Porta San Pancrazio a vedere “Mary Poppins”, una volta alla settimana mamma mi comprava un’automobilina da Fantini in Via Marcantonio Bragadin, e quando Mamma andò in ospedale perché stava nascendo mia sorella Elisabetta, io venni mandato a casa della famiglia Sinibaldi – carissimi amici di famiglia. Me ne ricordo con affetto e gratitudine, perché furono giorni meravigliosi, ed io mi innamorai per la prima volta della fidanzata di uno dei figli della signora Sinibaldi. Si chiamava Adriana, aveva 20 anni più di me, aveva una gonna verde e calze bianche, occhi color della gonna e capelli biondi montati in modo buffo che lei scuoteva mentre rideva. Una volta mi volle prendere in braccio e mi sentii offeso ed umiliato. Mica sono un moccioso.

Marcello con la felpa dell’Università di Los Angeles, Silvana sulla Seicento di Marcello, circa nel 1964

Marcello stava spiccando il volo. Marcello aveva una squadra, fatta di amici, che vinceva gare dove prima non c’era nulla. La FIN lo mandò in California, a Sacramento ed a Los Angeles, a studiare i loro metodi di allenamento, e tornò con una bellissima maglietta “Rutgers” per me ed una per Carlo, con dei filmini noiosi di gente che nuotava (ed allora non potevo apprezzare il fatto che il giovanissimo Marcello stesse allenando due medaglie d’oro alle Olimpiadi come Debbie Meyer e Mike Burton). Marcello era andato (credo) pieno di entusiasmo e curiosità, che sono sempre state la sua migliore qualità, e forse anche un po’ spaventato. Mandava lettere fitte fitte a Silvana, e le riconoscevo perché le buste erano quasi trasparenti ed avevano una cornice blu, bianca e rossa. Mamma leggeva due o tre volte, una delle quali a voce alta, con quella voce da paperetta che faceva quando era commosso o emozionata. In faccia era tutta rossa e mi diceva: forse rimane lì, e noi lo raggiungiamo. Se fosse accaduto, tutti saremmo altre persone, l’intera vita sarebbe stata diversa.

Antonio aveva cinque anni più di Marcello, quindi sfiorava i quaranta. Era stato in guerra, aveva attraversato la Francia a piedi dalla spiaggia di Omaha, in Normandia, poi aveva superato il Reno ed aveva combattuto fino al Danubio, a pochi chilometri da Vienna, quando finalmente Hitler venne spazzato via e tutti poterono tornare a casa. Non Antonio, che venne mandato a Bari e, finalmente, con alcuni militari americani di stanza in Puglia, poté registrare il suo primo disco (di cui nemmeno lui ha una copia e sul mercato del vinile vale 2500 dollari, perché è semplicemente introvabile). Ma una copia è finita in mano a Stan Getz, in quei modi miracolosi con cui Dio accarezza i figli prediletti, ed al ritorno a New York, nel 1950, lo aspettava un contratto per cantare ogni sera al Greenwich Village. Lì ha incontrato una musicista jazz, Patricia, con cui è rimasto per vent’anni, prima di finire in un divorzio pieno di rabbia.

Tony Bennett e sua moglie Patricia nel 1961

Ma Pat gli ha dato la spinta di cui aveva bisogno: lei lo chiamava Tony, e gli sconsigliava di registrare con grandi orchestre, come faceva il suo conterraneo Frank Sinatra. “Quella roba è morta con l’America dei ricchi odiosi e razzisti. Oggi esiste solo il jazz che sia onorevole”. E Tony, grazie a Stan Getz, ha dato la sua voce alle formazioni più famose dell’epoca: i fratelli Adderley, Chuck Wayne, Art Blakey, Count Basie, Chico Hamilton. Finché Basie lo portò alla CBS con i nastri registrati in diverse serate in cui Count aveva fatto cantare a Tony le più famose ballate di vent’anni di storia del musical di Broadway. Il disco venne pubblicato tre settimane dopo la nascita di mio fratello Carlo, nel giugno del 1962, e rese Tony famoso quanto Frank Sinatra – il cantante italiano più famoso d’America.

Marcello si è innamorato di quel disco. Quando è tornato lo ascoltava di continuo, ed io lo avevo imparato a memoria. Non so perché sia tornato, e non credo a tutto ciò che mi fu detto: perché ero un bambino, e giustamente venivo escluso da quelle discussioni tra adulti; perché conosco Marcello bene quanto conosco me stesso, e so che è più complesso ed introverso di ciò che sembra; perché sono suo figlio e sono certo che molte delle sue paure io le abbia ereditate, e quindi sappia riconoscerle. Mamma sarebbe andata, di questo sono certo. Ma sono rimasti, ed ora eccomi qui.

Frank e Tony alla metà degli Anni 70

Quel disco mi è costato, nel 1997, 100mila lire. Ben spesi, ve l’assicuro. Ora sono io che lo ascolto spesso. Quando regalai a Marcello delle cassette con la musica dei suoi giorni californiani, la cosa non gli fece piacere. Forse gli ricordava cose cui non aveva voglia di pensare. Forse sognava, come me, quel ponte immenso della copertina del disco su cui lui era passato in una giornata di gelo brumoso e malinconico, o una giornata di sole di quel giallo, di quel bianco, di quel verde e di quel blu che stava solo nelle pellicole di quegli anni (Kodachrome…) e che oggi non esiste più. Forse, anche lui, come tutti, ha nostalgia per una vita parallela e possibile che non c’è stata, e che quindi è fantastica, perché è solo un’emozione.

Come la canzone cui Tony ha dedicato l’album. Gliel’aveva suonata il suo pianista, Ralph Sharon, una notte del dicembre del 1961, dopo aver suonato nel lussuoso Fairmont Hotel di San Francisco. Erano nella Venetian Room dell’albergo, dove ogni sera gli ospiti speciali potevano godere di artisti straordinari che improvvisavano. Ralph diede a Tony lo spartito, e la cantarono insieme per la prima volta. Il giorno dopo il Chronicle, parlando della serata, disse che la voce incerta, profonda e spezzata di Tony era stata talmente toccante, che molte signore avevano pianto. Ed io vi dico che anche se Marcello non lo ammetterà mai, ne sono certo, qualche volta, ascoltandola, ha pianto anche lui. È un uomo pieno di difetti, come tutti, ma con un cuore di bimbo ferito che non guarirà mai, ed è uno dei motivi per cui gli voglio tanto bene.

Count Basie convinse Tony a considerare quella canzone di nostalgia per san Francisco come il suo inno, e così è ancora, perché nel 2016 la città ha scoperto una sua statua nella Venetian Room, e lui, a 90 anni, ha cantato ancora. Al piano c’era la stupenda moglie di Elvis Costello, Diana Krall, una delle musiciste jazz più famose di questo secolo. Diana suonava in ricordo di colei che l’aveva lanciata più di venti anni prima: Rosemarie Clooney (un’attrice di musical bellissima che era diventata famosa cantando Mambo Italiano), da sempre amica di Tony – e che, quella sera del dicembre 1961, era da poco diventata la zia di George Clooney, poiché il mondo è piccolo come una noce e ci si conosce tutti, prima o poi…

Quella San Francisco, comunque, non esiste più. Come Roma, del resto, e tutte le altre città che abbiamo amato oltre mezzo secolo fa. Arrossisco. Di orgoglio. Buona giornata, Marcello, padre e fratello mio.

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CAT: San Francisco, Storia

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