Con Storia della Repubblica, Guido Crainz chiude un’indagine attorno al contemporaneo italiano apertasi con Storia del miracolo italiano e proseguita con Il paese mancato. Guido Crainz costruisce una narrazione intensa e affabile attraverso un uso abile e affascinante delle fonti. Quella di Crainz è infatti una vera e propria narrazione storica in cui ai documenti ufficiali troviamo affiancate le cronache dell’epoca: giornali, libri, cinema. Uno sviluppo che alterna dati statistici e politica a eventi di cronaca popolare e culturale, un miscuglio ben calibrato capace di restituire il senso di una Repubblica in cui alto e basso si alternano generando quell’equilibrio sempre instabile tra la farsa e la tragedia.
Suddiviso in cinque capitoli dalla Costituente fino alla deriva di tangentopoli e al governo Renzi, Storia della Repubblica è un eccezionale racconto di alta divulgazione capace di contenere pur nella sintesi di poco più di trecentocinquanta pagine le contraddizioni e le evoluzioni del secondo Novecento italiano. Una lettura capace di spiegare cosa è stata quell’epoca senza perdere, ma anzi definendo lo sguardo sull’oggi, evitando facili entusiasmi e goffe ingenuità tipiche spesso di un giornalismo d’attualità che troppe volte pare dimenticarsi di quanto è avvenuto e stato pochi anni prima.
A Guido Crainz abbiamo fatto alcune domande sul nostro presente e sui settanta anni della nostra fragile e complicata Repubblica.
Siamo di fronte ad un cambiamento costituzionale radicale con la scomparsa del Senato elettivo, quali sono i cambiamenti rispetto alla storia Repubblicana a cui il Paese va incontro? Quali le criticità?
Il superamento del Senato, o del bicameralismo paritario, era stato auspicato già da alcuni decenni e da più parti: fra i primi vi fu, alla metà degli anni settanta, persino Umberto Terracini, che era stato presidente dell’Assemblea Costituente. In quell’Assemblea molte ragioni spingevano a favore di un sistema segnato da forti contrappesi istituzionali e da un esecutivo debole: ad esempio l’esperienza stessa del fascismo e più ancora l’enorme incertezza di quei mesi, nei quali l’esito delle elezioni politiche era incertissimo e il delinearsi stesso della guerra fredda imponeva forti cautele. Si inserì in quel quadro l’istituzione di una seconda Camera, sui cui contorni lo stesso De Gasperi (suo primo fautore) mutò fortemente opinione fra il 1944 e il 1947. Superato ormai da decenni quel clima, la fine del bicameralismo paritario iniziò a sembrare a molti opportuna. Le difficoltà vengono oggi semmai da un altro aspetto: l’introduzione di un sostanziale monocameralismo avviene contemporaneamente all’approvazione di un sistema elettorale maggioritario (reso ancor più necessario e al tempo stesso problematico dal delinearsi di tre blocchi politici fortemente disomogenei, se non reciprocamente incompatibili). Su questo piano va spostata semmai la discussione, analizzando in modo pacato il meccanismo costituzionale che è stato delineato
La stagione dei governi Berlusconiani quanto ha mutato le dinamiche sociali e repubblicane?
Quella stagione si è inserita in dinamiche, culture, deformazioni che si delineano sin dagli anni ottanta, per il contemporaneo svolgersi di differenti processi: economici (con il declino della società fordista e l’irrompere del mondo post industriale), sociali (con la progressiva scomparsa delle classi sociali precedenti e con il dilagare di un ceto intermedio inedito e di forme diffuse di lavoro precario e irregolare), politici (con la crisi, non solo italiana, dei partiti novecenteschi e il delinearsi -con il Psi craxiano- di un “partito personale” , e con il crescente intreccio fra politica e media), culturali. Con il diffondersi, anche, di quei processi che Italo Calvino coglieva splendidamente nel 1980 con il suo “Apologo sull’onesta nel paese dei corrotti”, che ha un avvio fulminante: “c’era un paese che si reggeva sull’illecito”. I nefasti germi posti allora si sviluppano in modo impetuoso nel “ventennio berlusconiano”, segnato anche dal macigno del “conflitto di interessi” e dal disegno esplicito di intaccare quell’equilibrio fra i tre poteri dello Stato che è il segno distintivo della democrazia.
L’Italia è oggi una Repubblica compiuta? I contrappesi funzionarono nei momenti di massima tensione al tempo del terrorismo? Oggi secondo lei sono ancora in grado di garantire l’equilibrio democratico?
Nei tempi del terrorismo funzionarono non tanto contrappesi istituzionali quanto anticorpi collettivi che oggi sembrano quasi sfibrati,e questo mi sembra il punto critico più pericoloso. E questo ci ricorda che, per dirla con Renan, la nazione (e la Repubblica) non sono mai una conquista definitiva ma un “plebiscito quotidiano”.
La cultura italiana oggi riesce ancora ad essere da supporto alle dinamiche sociali di questo paese o ormai siamo totalmente succubi di una globalizzazione culturale? Abbiamo ancora una specificità culturale?
Questione irta -come le altre, del resto- e la prima risposta che mi sento di dare è che non siamo riusciti ancora ad essere al tempo stesso italiani ed europei, come Carlo Azeglio Ciampi auspicava con forza. Né stiamo elaborando strategie culturali adeguate alla formazione dei nuovi italiani ed europei, al cui interno si collocano milioni e milioni di cittadini nati altrove o figli di cittadini nati altrove. A mio avviso insomma non siamo di fronte ad una “partita a due” fra una rassicurante specificità nazionale e una misteriosa e insidiosa globalizzazione: la sfida è molto più difficile e al tempo stesso interessante, e non può essere elusa.
Crede che l’opinione pubblica italiana sia ancora in grado di proporre il proprio punto di vista a fronte di una frammentazione del dibattito e un crollo di partecipazione al voto?
Dovremmo forse chiederci di quale opinione pubblica stiamo parlando: possiamo escludere da essa, ad esempio, le componenti populiste e xenofobe? Nel crollo della cosiddetta “prima repubblica” esaltammo una salvifica “società civile”, contrapposta ad un ceto politico corrotto e privo ormai di autorità: una parte consistente di quella “società civile” votò largamente allora per Berlusconi e per Bossi e dovremmo evitare nuove semplificazioni. Dovremmo semmai interrogarci sulla debolezza di una cultura e (di una politica) riformatrice, e sulle ragioni per cui si è arrivati alla profondissima crisi attuale.
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