La Trumpnomics è ai nastri di partenza

20 Gennaio 2017

Ci siamo: oggi 20 gennaio il passaggio di consegne tra Obama e Trump sarà definitivo. A seguire, per i primi 100 giorni, c’è da attendersi una raffica di ordini esecutivi che daranno forma alla politica economica dell’era Trump. Il mercato lo sa benissimo: dopo mesi di speculazioni frenetiche sulle scelte strategiche che il presidente eletto dovrebbe intraprendere, si è messo in attesa. Da inizio 2017 gli indicatori di mercato sono fermi. I trend che si erano definiti nei mesi precedenti si sono interrotti. Anzi, si scorgono anche segnali sul fatto che il mercato è pronto a prendere direzioni opposte alle prime concrete mosse del neo-presidente.

Dunque siamo di nuovo al momento del redde rationem,  in cui le aspettative degli operatori devono confrontarsi con la realtà. Ma qual è stata la scommessa del mercato?

Innanzitutto tutti hanno puntato su un’accelerazione della crescita economica, principalmente connessa con l’attesa riforma fiscale di Trump. In campagna elettorale il discusso piano di investimenti privati che prevede 1000 miliardi di $ in nuove infrastrutture ha lasciato piuttosto freddi i mercati. Ma sulle tasse Trump ha colto nel segno, promettendo tagli netti alle aliquote fiscali sul reddito. Si osservi la Figura 1.

Figura 1

Per capirci, ora l’aliquota massima è al 39,6%. Dovrebbe crollare al 25%, per tutti i redditi a partire dai 230.000$ in su. Certo un bello sgravio per i ricchi, sebbene anche le classi medio-basse verrebbero avvantaggiate, ottenendo l’esenzione totale per i redditi inferiori ai 20.000$ ed un taglio del 10% fino ai 75.000$. Si tratta della fascia di reddito che comprende la quasi totalità della c.d. middle class, i lavoratori dell’industria manifatturiera e del settore minerario; cioè tutto il bacino elettorale che ha permesso a Trump di vincere le elezioni. Soltanto la fascia media (75.000$-230.000$) non vedrebbe modifiche sostanziali. Ma è sulla tassazione alle grandi imprese che si accumulano le speranze maggiori: ora la corporate tax è ferma al 35%, una sforbiciata di almeno 5 punti farebbe impennare i profitti con un prevedibile boom dei mercati azionari. Il provvedimento dovrebbe essere accompagnato negli intenti dall’eliminazione della deducibilità dalle tasse degli interessi passivi. In questo modo verrebbe scoraggiato l’accumulo di debito da parte delle imprese che ora sfiora il 45% del PIL, un picco raggiunto solo nel 2008 appena prima della crisi finanziaria e del crack di Lehman Brothers. Incentivi ad hoc a favore della crescita del capitale fisico e finanziario contribuirebbero alla ripartenza degli investimenti. I buybacks, cioè i riacquisti di azioni proprie (anche a debito) al fine di ridurre il capitale e pagare i dividendi che hanno dominato Wall Street negli ultimi anni tenderebbero a sparire.

Come finanziare questi sgravi fiscali? Un consistente aumento del deficit federale sarebbe inevitabile, con conseguente rialzo dei rendimenti sul debito pubblico USA. Un trend al rialzo dei tassi di interesse sugli US Treasuries a 10 anni è già in atto da agosto 2016 con circa 50 punti base (+0,5%) in più (cfr. Figura 2). Come si vede bene dal grafico, una parte di questo incremento è spiegabile con la crescita delle aspettative di inflazione degli operatori negli ultimi 4 mesi, che hanno richiesto un maggior premio per la copertura del rischio di svalutazione dei titoli.

Figura 2

Al riguardo, anche la politica monetaria della FED sembra muoversi in sincrono: ad oggi il mercato ritiene molto probabile (95%, cfr. Figura 3) almeno 2 rialzi dei tassi di interesse nel 2017, forse oltre il valore di riferimento dell’1,25%.

Figura 3

Analizzando in dettaglio la Figura 3, si nota come un minimo (20%) sia raggiunto nell’immediato periodo post-Brexit a seguito dei timori di un rallentamento della crescita, smentito poi dai fatti. Da agosto le aspettative di una ripresa del ciclo di rialzo dei tassi di interesse USA crescono moderatamente sulla scia dei dati positivi sul PIL e l’occupazione ma si mantengono intorno al 50% fino all’election day. Poi c’è un’esplosione verso l’alto a seguito della vittoria di Trump che proietta le probabilità su un plateau elevato stabilmente superiore all’80%. La decisione della FED presa il 14 dicembre di ri-avviare effettivamente il ciclo con un rate hike dello 0,25% sposta solo marginalmente le aspettative degli operatori di pochi punti percentuali. Ironicamente, sembra che il mercato consideri, più che le dichiarazioni ufficiali dei portavoce FED o della stessa Yellen, la presidenza Trump come migliore garanzia per un rialzo consistente della struttura dei tassi di interesse.

Ma anche altre opzioni sono ritenute verosimili: Trump potrebbe finanziare la sua espansione fiscale attraverso una tassa del 20% sulle importazioni, mentre le esportazioni rimarrebbero immuni. Questa scelta sarebbe coerente con la sua nota avversione ai trattati di libero scambio (il TTP verso i mercati asiatici ed i negoziati sul TTIP europeo dovrebbero essere le prime vittime di Trump), nonché con le promesse di rilancio della manifattura nazionale a scapito dei beni d’importazione.

In ogni caso, le speculazioni del mercato hanno già provocato un tangibile “effetto Trump” tra ottobre e dicembre 2016: una rivalutazione del Dollaro del 7%. Infatti se il deficit di bilancio è previsto in allargamento ed i tassi di interesse in rialzo, la storia economica insegna (come ai tempi di Reagan) che ha senso puntare su una valuta in rafforzamento. L’esempio più calzante va cercato infatti in quello che accadde con la presidenza Reagan e l’insediamento dal “falco” Paul Volcker alla Federal Reserve: un deficit federale in esplosione dal 2,5% al 5,9% e tassi di interesse schizzati dall’8% al 15% in 3 anni provocarono una inarrestabile scalata del Dollaro che si apprezzò del 40% rispetto alle principali valute internazionali fino al picco di forza assoluto del 1985. Fu necessaria poi una manovra concertata a livello internazionale di politica monetaria tra le principali banche centrali del mondo (il c.d. “Plaza Accord”) per ridimensionare la divisa USA.

Il dato interessante (cfr. Figura 4) è che il trend era già visibile ad ottobre 2016, in piena campagna elettorale: cioè i mercati hanno cominciato a prendere sul serio le dichiarazioni di Trump già dal momento in cui è apparso evidente il recupero nei sondaggi su Hillary Clinton. Gli operatori hanno poi proseguito a comprare Dollari nonostante l’accelerazione delle aspettative di inflazione, rischiando cioè un’erosione potenziale del valore dei propri investimenti. In genere dovrebbe succedere il contrario: se l’inflazione sale, la domanda di Dollari scende a causa della fuga degli investitori più prudenti ed il cambio si indebolisce.

Figura 4

Se si torna a guardare bene la Figura 4 si vede che fino a settembre è andata proprio così, con il Dollaro che seguiva fedelmente l’andamento delle aspettative di inflazione. Poi la sorprendente divergenza e l’ascesa inesorabile del Dollaro, che si è arrestata solo negli ultimi giorni in attesa delle prime dichiarazioni ufficiali e di provvedimenti tangibili.

È piuttosto evidente nei movimenti nervosi del tasso di cambio a ridosso dell’insediamento che gli operatori sono pronti a cambiare precipitosamente idea nel caso in cui le prime mosse di Trump debbano muovere nella direzione opposta ai loro desideri. La reazione del Dollaro ad uno dei primi discorsi ufficiali del neo-presidente in cui ha fatto chiaro riferimento alla necessità di indebolire il Dollaro per rilanciare l’industria nazionale è stata quella di un crollo repentino, con successivo parziale recupero. Se Trump dovesse tradurre solo parte delle proprie recenti dichiarazioni in realtà, potremmo affermare che, con buona pace delle aspettative del mercato, l’idea di un super-Dollaro sostenuto da tassi di interesse in crescita e deficit commerciale potrebbe avere già esaurito il suo appeal.

Gli operatori finanziari hanno dunque scommesso pesantemente su Trump; o più che altro sulla loro versione desiderata di “Trumpnomics”. È lecito avere dubbi su questa visione ed in parte condividiamo i dubbi di una parte del mercato: dollaro forte e rilancio dell’industria manifatturiera difficilmente possono andare d’accordo a lungo. Ma ora per i mercati il momento delle ipotesi è finito: è tempo di un bagno di realtà.

 

TAG: crescita, deficit, dollaro, Fed, tassi di interesse, Trump
CAT: macroeconomia, manifattura

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