Passaggio in Sardegna

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8 Agosto 2020

Il termine “passaggio”, di derivazione francese, designa in prima istanza la percorrenza di un luogo o l’attraversamento dello stesso per spostarsi da uno all’altro. Prima di tutto l’idea di passaggio si correla, quindi, a una concezione spaziale di tipo dinamico, attribuibile a oggetti, animali o persone. A partire da questo significato, non risulta difficile accogliere la definizione del suo senso figurato, e dunque passaggio come cambiamento di status, di condizione. Se volessimo isolare un passaggio esemplare dovremmo senz’altro nominare la Pasqua che, nella sua etimologia di origine ebraica, descrive il passare oltre, dalla morte alla vita, dalla schiavitù alla liberazione, dal peccato all’assoluzione totale.

Una sera, a Roma, sulle sedie di un bar del quartiere di San Lorenzo, un etnografo mi spiegava che oggi, per poter parlare compiutamente delle identità, bisognerebbe analizzarle nel loro passare, immortalarle, in qualche modo, nel loro essere in transito per le vie di qualche luogo. In effetti, le giovani generazioni di oggi hanno radici mobili e per esse la definizione del sostrato identitario è data massimamente dallo spostamento; non, quindi, dal punto di partenza o da quello di arrivo, ma da ciò che sta nel mezzo: il passaggio appunto. O, con parole assai migliori, «E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso./ Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso/ già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.» (da Itaca di Costantino Kavafis).

Paradossalmente, in un’epoca in cui i riti che accompagnavano le transizioni della vita si svuotano di senso e divengono simili a pretesti per cerimonie o poco di più, lo spostamento fisico nello spazio, con l’ondata di cambiamenti micro e macro che smuove, si riappropria di massima sostanza e vigore.

A partire proprio da questa accezione piena del concetto di “passaggio” è utile iniziare a leggere le pagine di Massimo Onofri che, spostandosi in lungo a in largo per la Sardegna, permette al lettore non solo di conoscere a fondo l’isola ma, soprattutto, di comprendere cosa può essere davvero un luogo. Onofri, infatti, muove la sua scrittura su una triade che accompagna tutta la stesura di Passaggio in Sardegna (Giunti 2015): il dato geografico, quello biografico e, infine, l’elemento letterario. Di quest’ultimo occorre dire che non si annida solo nelle lezioni di letteratura e di storia con cui l’autore, che è professore ordinario di Letteratura italiana contemporanea, intesse il racconto, alternandolo a esperienze e riflessioni, ma lo si ritrova soprattutto nella visione letteraria del cambiamento costante, spaziale in primis, e personale subito dopo. In altre parole i numerosi cammei letterari e storici sono funzionali alla narrazione primaria, rivolta a descrivere la relazione biunivoca uomo/luogo in tutte le sue sfaccettature: «Villa Webber, alla Maddalena, fu fatta costruire dall’inglese James Phillipps Webber alla fine dell’Ottocento, in cima a un’erta e separata dalla strada per via d’un lungo muro di pietre, con funzioni di casina di caccia. Passata di proprietà a un figlio adottivo, un napoletano di cognome russo, nel frattempo sposatosi con l’olbiese Marietta Tamponi, con la quale ebbe cinque figli, venne mutata in abitazione: un ingresso principale, ma dalla parte che non guarda Palau e la Gallura, decorato di merli guelfi, leoni e aquile di terracotta; sei finestre per due appartamenti, delimitati e divisi da essenziali inferriate; un terrazzo, che comunica con un ballatoio attraverso quattro scalini mangiati dalla salsedine. Non so se la si possa visitare ancora. L’ultima descrizione a mia conoscenza è quella che ci restituisce nel 1956, in un bel libro intitolato La pulce nello stivale, Giovanni Artieri: il cancello serrato; le porte e le finestre sigillate col fil di ferro, vetri rotti; il ballatoio invaso dal fogliame; una fitta macchia di olivastri, agavi e cardi cresciuti dentro il parco recintato; e poi la scritta Villa Webber, incisa su una targa di marmo sbrecciato.»

Per quanto concerne il dato geografico e quello biografico, essi stanno in una danza continua che ne impedisce il distacco l’uno dall’altro; è come se Onofri si spostasse contestualmente su una direttrice verticale, lo spazio, e una orizzontale, l’episodio di vita (e quindi il tempo), lasciando generare in ogni loro punto di incontro un cronotopo preciso, il più delle volte dotato di un’insegna, un profumo, un nome e cognome: «La prima immagine che sorprende di Olbia, se si è appena sbarcati dal traghetto, è quel concitato groviglio di strade e viadotti che, dal porto, si sopraelevano s’inclinano a gomito e poi planano, prima di diramarsi verso il centro o costituirsi in tangenziale.»; «Davide ha portato per me un caricatore Samsung: col cellulare scarico sarei un uomo del tutto fuori giuoco, poco importa se mia figlia, il mio grande amore, non sai mai se ha voglia di rispondermi oppure no. Io ho molta fame, anche se ho mangiato più di qualcosa a Roma: si decide, allora, di andare in pizzeria, Il Galeone, dove sono già stato una volta, serbandone un buon ricordo, seppure lontano e confuso. In effetti la pizza è ottima e leggerissima: me ne mangio addirittura due ai funghi champignon, come non faccio mai, opportunatamente annaffiate dall’ottima birra Ichnusa. Bella serata davvero: epperò, dopo aver accompagnato Davide alla casa di Olbia marittima, ci si dirige verso San Teodoro, da Silvio: che abita in campagna, in una bella villa sollevata su un paesaggio che digrada sino a un mare toccante, qualche chilometro prima del paese, che riposa placido dietro la montagna.»

Come già sottolineato in altre recensioni e, in effetti, considerazione che risulta impossibile non fare anche qui, è il parallelismo che Onofri crea tra passaggio e destino; come a dire che nei transiti che ciascuno di noi sceglie di fare o che si ritrova a fare per forza di cose, si debba leggere, come sulla mano, la linea della nostra vita: siamo dove andiamo e chi, in quel percorso, abbiamo incontrato. Per questo può essere il mare muto o il chiacchiericcio del bar a dirci qualcosa in più di noi o a innescare quelle domande che ci porteranno a rimetterci in cammino per trovare le risposte.

Passaggio in Sardegna è sì, allora, un inno a Porto Torres, Cagliari, Sassari, Alghero, Olbia e alle isole Caprera, La Maddalena e Asinara e un omaggio dotto alla loro storia e tradizione, ma innanzitutto è un invito a non sottovalutare la potenza e i poteri dei luoghi, che parlano di noi e sanno anche ascoltarci. E, se osservati con attenzione e indagati con cura, possono restituirci tasselli utili per ricostruire il mosaico coloratissimo delle nostre identità in perenne cammino; perché Onofri, in questo scorcio di slow life isolana, si mantiene fedele ai valori dell’individuo, come molto prima di lui Edward Morgan Forster in Passaggio in India. Ed è proprio questa fedeltà, da intendersi come massimo rispetto all’essere umano in quanto tale, l’unica distrazione da non concedersi in nessun passaggio della propria esistenza, soprattutto oggi, in una società che ci vorrebbe flâneurs sempre con la testa tra le nuvole.

TAG: Giunti, Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna, sardegna
CAT: Letteratura, viaggi

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