Grand San Pellegrino Hotel: tra Ugo Tognazzi e Wes Anderson
La contemporaneità è uno spazio scisso in cui il presente si deve obbligatoriamente confrontare con il presente presunto. La confusione nasce dal fatto che spesso il presente presunto fa parte in toto della realtà, mentre il presente diciamo storico, costituito da una lunga macerazione fatta dall’accumulo del passato su cui si riversa la consapevolezza di quello che si è sempre detto il nostro tempo, è sostanzialmente ridotto ad una palla irregolare. Un grumo che nulla favorisce e nulla spiega, ma che molto blocca fino ad un possibile infarto intellettuale.
E così, se da un lato abbiamo una contemporaneità aderente a una realtà ogni giorno nuova, diciamo fatta di quella tristezza emotiva a tratti depressiva alla Richard Linklater (colui che diede una possibilità a scarsi attori di andare oltre le televendite – copyright David Foster Wallace), dall’altra abbiamo un immaginario mondo passato, volutamente posticcio e per questo emotivamente stupefacente. E dalla grazia inconsueta tipica di Wes Anderson e del miglior Bill Murray: nulla di possibile in realtà eppure come il calabrone vola, esiste e si fa guardare.
Entrare in un Grand Hotel chiuso, abbandonato a tratti cadente – oltre che violato in ogni suo ambiente dalla razzia degli antichi arredi in stile ormai dispersi – avanzare tra le sterpaglie con l’indole di un inedito Indiana Jones con il piglio ferito di un Federico Zeri sperso in una valle bergamasca a conduzione sia industriale che famigliare non può che rendere al meglio quell’improbabile incontro tra un film di Linklater (povero lui e povero noi) sceneggiato da Wes Anderson, in pratica un film anni Settanta di Dino Risi. Una tragedia ridicola direbbe il nostro Maestro di Parma (B.B.).
Il Grand Hotel di San Pellegrino è ad oggi uno dei più grandi, per non dire epici, buchi di un’Italia contemporanea in totale abbandono. Una perdita di senso collettiva che travolge e abbatte il significato primo di un passato che oggi subisce lo sguardo attonito di una società incapace di distinguere la realtà dalle proprie aspettative spesso maturate nell’incoscienza più avulsa. Un passato che come il presente pare capitato, arrivato da chissà dove, incapace ormai di testimoniare un passaggio o anche solo di stupire. Infine non resta altro che un poco di incredulità mista ad un senso di confusa inutilità per un epoca contemporanea priva di forma e quindi anche di distinzione.
Costruito ai primi del Novecento in stile liberty tipico della belle époque, il Grand Hotel nacque su iniziativa di Cesare Mazzoni (Acqua San Pellegrino) con l’intento di dare spazio e sviluppo a una località termale in ascesa anche per merito del Casinò, vera e propria fonte di richiamo turistico. Il Grand Hotel non fu che uno degli elementi di sviluppo della piccola cittadina della val Brembana, trasformata agli inizi del Novecento grazie a una rivoluzione urbanistica guidata dell’architetto Romolo Squadrelli che intervenne sulla passeggiata centrale, la vera e propria congiunzione tra il Casinò, le terme e il Grand Hotel.
Quello che oggi resta, oltre a degli squisiti biscotti prodotti da un’amabile pasticceria lungo il viale, è così un elegante centro decadente circondato dagli elementi di una urbanizzazione più o meno speculativa dalle caratteristiche poco ambiziose – per non dire oscene. Un’architettura anni 50/70 che nella sua geometrile mentalità è capace di rendere ancor più evidente e angosciante la vista della facciata sul lungo fiume dello storico Grand Hotel.
Le guerre, come ci ha raccontato Wes Anderson, cambiarono le cose e nel volgere di pochi anni del Grand Hotel non rimasero che le sbiadite impronte di Re e Regine, di poeti, giocatori d’azzardo e uomini di mondo. Intanto attorno incombevano sterpaglie e una città sempre più invecchiata aggiungendo all’umidità degli intonaci staccati la profondità delle rughe di un tempo che scorre implacabile.
L’ingresso del Grand Hotel presenta ancora oggi il nobile scalone mentre i lampadari sono ormai un’ombra sul muro. Gli spazi non sono mai esageratamente imponenti nonostante la struttura di sette piani. L’eleganza è qui figlia di una misura quasi protestante, non mancano i segni di un passaggio decorativo eccessivo, ma tutto è vergato da ironia, la stessa che oggi restituisce una straziante nostalgia a questi luoghi dimenticati e abbandonati. Esistenze e calcinacci rimossi dalla memoria di una comunità distratta, stanca e perplessa.
Sedersi al bar della hall restituisce buone sensazioni nonostante i topi di passaggio, ma da bere non c’è più nulla – no, nemmeno dell’acqua in bottiglia. Il Grand Hotel è un ottimo luogo per immaginare, qui infatti il senso della realtà si perde facilmente e l’occhio si inganna rapidamente perché quello che si vede non appare in realtà più da decenni. Gironzolo con gli occhi al cielo mentre mi perdo tra soffitti cadenti e il pavimento di legno polveroso scricchiola morbidamente (e in maniera inquitante) sotto i miei passi. Sarebbe bello fare due chiacchiere con il vecchio direttore…
Il direttore ha lo sguardo severo, la capigliatura argentea e i baffi sottili. Elegantissimo nel portamento rivela tuttavia negli occhi mobili un’isteria di fondo, un’insoddisfazione che soggiorna nella sua mente. Il viso è quello del cantante tenore Mario Del Monaco che fu grande negli anni Cinquanta e Sessanta e come spesso accade nell’Opera fu poi popolarissimo negli anni Settanta quando iniziò vocalmente a declinare e si rivolse con piacere alle platee televisive più che a quelle teatrali. Il ruolo di direttore del Grand Hotel gli fu assegnato da Dino Risi in Primo amore. Mario Del Monaco con la sua aria da signore ottocentesco e quella punta di inquieta soddisfazione sul viso pareva rispondere appieno al ruolo di chi sa di non aver più alcun ruolo. Del Monaco appariva un direttore in simbiosi assoluta con un Grand Hotel decaduto e ormai ridotto nel film a casa di riposo per vecchi saltimbanchi.
Il film del 1978 in verità mostra la decadenza come tratto essenziale della struttura e dell’anima di questo spazio. Impossibile trovare un senso a qualcosa che ha al suo interno una tale nostalgia: va solo tenuto in vita, come un ricordo, come un bel giorno che fu. Mario Del Monaco è elegantissimo nella sua regale illusione, lo è meno il povero Ugo Tognazzi tormentato da un’età inquieta – la vecchiaia – e soprattuto dalla giovane Ornella Muti, bellissima e disperata nel suo mestiere di cameriera. Ugo Tognazzi, alias Picchio, si giocherà così tutte le carte di un’esistenza traballante per quel magnifico primo amore e una volta da lei abbandonato non gli resterà che aspettare la morte tornando all’ospizio, al Grand Hotel appunto da cui era fuggito con il sangue ancora vivo in petto.
Mentre fuori inizia a fare buio mi rendo conto che il mio lato Linklater inizia a prendere il sopravvento. Un filo di malessere depressivo mi conquista tra legni rotti e marmi scheggiati (nulla è così miserabile come un marmo scheggiato). Il tempo stretto in cui mi trovo è fatto del medesimo taglio di luce che illumina le imperfezioni relegando all’ombra il compito di ricordare la bellezza smarrita. Un tempo dentro al quale rigenerare significa dare senso al mantenere, in cui innovare significa dare nuovo spazio alla memoria.
Il Grand Hotel si staglia davanti a me mentre un ramo mi straccia i pantaloni all’altezza del polpaccio. Mi pare il segno più bello e ben augurante di un tempo che deve prima di tutto resistere oggi, per riempierci gli occhi domani. Come mostra Wes Anderson che con Grand Budapest Hotel ha superato l’interpretazione di un passato banalmente cronologico ed evolutivo come quello proposto invece pateticamente da Richard Linklater con Boyhood. Anderson ha dato evidenza a un passato parallelo che ci accompagna ogni giorno, una linea del tempo che si è fatta gomitolo e quindi all’occorrenza ottima per una sciarpa un berretto o anche per un maglione.
La poca grazia di Dino Risi (consueta poca grazia) si rivela utilissima nel raccontare quale sotto testo la decadenza di un Grand Hotel che non è nemmeno più un albergo e in fondo nemmeno propriamente una casa di riposo, anzi non è proprio più nulla: esiste, ingombra, ma non è nulla.
La decadenza dunque è la perdita di significato a cui segue quella dalla forma. I calcinacci che si staccano, i tubi che si rompono e gli ospiti che uno ad uno se ne vanno morendo e non partendo a bordo di auto fuoriserie verso nuovi lidi esclusivi. in Primo amore si muore, ma prima si perde di senso. La regalità che fu esclusività ora si tramuta in drammatica diversità, in una follia che non può lasciare spazio ad altro che a una dolora insensatezza, una amore che si tramuta in un inspiegabile abbandono. Primo amore ha la vitalità di un tempo scontento quanto disgraziato, ma aperto ad ogni irriguardosa e quindi splendida possibilità. È la prima volta e non conta se sarà anche l’ultima.
A San Pellegrino sono quasi tutti anziani e con delle espressioni che sembrano covare esclusivamente cattivi pensieri. Qui il rancore diviene irriducibile perché inspiegabile, come un amore perso, come un Grand Hotel abbandonato.
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