Evitare che i morti diventino degli scomparsi

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13 Ottobre 2022

«Il tipo dell’Istituto per le persone scomparse mi ha chiamato e mi ha detto: ‘Sudbin, ho delle buone notizie. Abbiamo trovato una fossa comune ed è immensa’.” Sudbin scoppia a ridere: “Buone notizie! Ti rendi conto! Vivo in un paese dove un carnaio con centinaia di vittime è una buona notizia!».

Non è una clip eccentrica ma illustra molto bene il succo della storia che Taina Tervonen prova a raccontare con Le scavatrici.

Il filo della storia si svolge tra 2010 e 2015, ma il senso del tempo è fermo al triennio 1992-1995. Il tema è come prendere la misura di quel tempo di sconvolgimenti, come fare i conti nel presente con il passato; quanti e come sono disposti a raccontarlo.

 

Bosnia Erzegovina,2010-2015,

Lentamente l’attività è quella di riannodare i fili del passato. Ma quella azione non implica provare a ricostruire ciò che si è infranto, magari costruendo una sensibilità internazionale per reinvestire e ricomporre un paesaggio distrutto. Il Ponte di Mostar e la sua ricostruzione alla fine è questo. Ma ciò che non c’è o che fa molta fatica a riprendere possesso dei suoi luoghi non né la monumentalistica, né la vegetazione, né la fauna. Sono gli uomini e le donne che con la loro assenza marcano il prima e il dopo.

Le scavatrici è un testo inquietante, soprattutto per questo.

Che cosa racconta Taina Tervonen?

La storia a un primo livello riguarda tre donne: un’antropologa, un’investigatrice, una giornalista. Tre donne che fanno parlare i morti e i vivi, alla ricerca della verità in un paese segnato dalle stragi. Senem è un’antropologa forense e Darija un’investigatrice. Una lavora con i morti, l’altra con i vivi, in un paese traumatizzato: la Bosnia-Erzegovina. Senem si occupa di identificare resti umani trovati in fosse comuni vecchie di decenni, mentre Darija va dalle famiglie degli scomparsi per ascoltare le loro parole e raccogliere il loro DNA. Quando Taina incontra Senem e Darija, la giornalista non ha idea della complessità del lavoro che la attende.

Taina Tervonen sa solo un dato generico come dice all’inizio:

«Bosnia-Erzegovina (..) non conosco granché della storia di questo paese, se non che c’è stata una guerra, che è finita nel 1995, una guerra con 110.000 morti, di cui 30.000 dispersi. Se ne cercano ancora un terzo, cioè 10.000 persone. È a loro che mi interesso, a quei fantasmi di cui le famiglie attendono il ritorno per poterli seppellire. Ho ascoltato dei parenti parlare del dolore dell’attesa, dell’impossibilità del lutto. Ma non ho la benché minima idea del lavoro necessario all’identificazione di un corpo».

Solo che quel lavoro se anche si configura come un dato tecnico, poi cambia natura e diventa un’altra cosa. «Perché i corpi che lentamente emergono dalle fosse comuni o dall’abbandono in cave non sono interi e spesso parti di corpi coabitano con parti di corpi diversi e dunque l’operazione è provare a connettere segmenti tra loro con l’aiuto di chi è ancora vivo ed è in cerca di morti, persone mai più tornate che sono tra quei pezzi di corpi. Il DNA dei vivi serve allora a rimettere insieme pezzi che altrimenti sarebbe impossibile individuare.

Questo perché verso la fine della guerra gli autori dei crimini si sono messi a spostare i corpi per nascondere le prove. E dunque anni dopo il lavoro di identificazione è considerevolmente più complicato. Raramente i corpi sono completi.»

Ma anche anni dopo sono gli esecutori dello sterminio che indicano dove si trovano i corpi dei nemici uccisi. «C’è qualcosa che li perseguita. Hanno bisogno di riscattarsi, in un certo senso», dice Zlatan un aiutante di Senem. Forse.

La dinamica della scena in Bosnia Erzegovina sembra è molto simile a quello che avviene in Spagna quando si cercano i cori degli uccisi della Guerra civile. Con una differenza: ciò che cambia è che se in Bosnia Erzegovina si va in cerca dei corpi per chiudere una storia e provare ad andare avanti, in Spagna si cercano prove del passato perché la storia di quel triennio nessuno l’ha mai raccontata per davvero e dunque si tratta di reimpossessarsi di un passato con cui non si è mai «preso le misure».  Ma in entrambi i casi il problema è ricostruire la storia di quello scontro per fare in modo che gli eredi di quelle due parti irresolutamente nemiche trovino una sintesi. Ovvero: il fine è produrre una narrazione che ricomponga la nazione infranta in quel conflitto.

Obiettivo problematico, perché come dice un interprete serbo di Taina «i giovani sentono solo una versione della storia. Tutti quelli nati dopo la guerra crescono in un paese diviso. Anche a scuola gli insegnano versioni diverse della storia. Per i musulmani gli eroi sono loro. Per i serbi sono i serbi e per i croati sono i croati. Nessuno vuole essere il perdente di questa guerra. E i giovani assorbono tutto questo. Rimango senza parole quando li ascolto. È come una malattia. Sono contaminati. Non so se vorrei crescere dei bambini in questo paese».

E tuttavia – come scrive Taina Tervonen – sarebbe sbagliato guardare proprio il lento e paziente lavoro di ridare un nome e un corpo ai resti che emergono dalle fosse comuni, qualsiasi sia stata la lo loro appartenenza etnica, consente di «ricucire pazientemente il legame che è stato rotto spogliando i morti della loro dignità, rifiutando ai vivi i saluti d’addio che potrebbero permettergli di continuare a vivere».

Come dice Darija a Fadila, una donna di settanta anni che ha perso gran parte della sua famiglia, «il nostro obiettivo è ritrovare le persone, ridare loro un nome, perché possano essere sepolte e riposare in pace.»

Il fine è evitare che i morti diventino degli scomparsi.

Questo è il succo della storia che ci comunica Tania Tervonen e il senso del lavoro che le scavatrici perseguono e praticano.

E tuttavia questa morale della storia ha un significato solo se siamo in grado di guardare fuori da quel cotesto e proviamo ad assumere il senso di questa storia in un tempo più lungo. E dunque assumere la Bosnia  come la regola e non come come eccezione.

Mi spiego.

Le scavatrici è un testo inquieto perché con molta sobrietà ci obbliga a prendere in carica un dato con cui conviviamo con fatica. Apparentemente il dato è che la guerra modifica il modello insediativo, e chi era prima in un luogo, anche in conseguenza del torto o della persecuzione subita se torna è guardato con diffidenza. La sua presenza fisica da consuetudine, propria del tempo precedente, è divenuta ingombrante, comunque fastidiosa. Meglio cambiare aria, lasciare e andarsene.

In Europa non è accaduto per la prima volta nella ex-Jugoslavia, La prima volta è accaduto in Ungheria, Polonia, Cecoslovacchia per citare solo le aree più frequenti, dove i sopravvissuti dei campi tornavano per trovare ciò che si era forse salvato di ciò che avevano prima della persecuzione e della deportazione e no trovavano più niente, spesso trovavano le loro cose (e le loro case) ormai in possesso di altri. Per vivere, in quel tempo di dopoguerra, era consigliabile andarsene definitivamente.

Quando non si comprendeva la lezione o non ci si era dimostrati «sensibili» ai messaggi che i locali inviavano, era sufficiente fare un pogrom, per cui chi si era salvato dal campo di concentramento trovava la morte a pochi metri dalla sua ex casa, ora abitata da altri che ne rivendicavano il legittimo possesso.

Ma noi nel secondo dopoguerra abbiamo impiegato decenni per prendere in carica questa scena. Paradossalmente è stata la guerra in Bosnia ad aver dato lo stimolo a comprendere che quello che anche allora con difficoltà eravamo disposti ad ammettere aveva dei lunghi precedenti. Ma anche si trattava di ripensare alla forma guerra e alla sua trasformazione in età contemporanea.

Mi spiego.

Nelle guerre del secondo Novecento la dimensione essenziale non è stata la rilevanza dei caduti sui fronti di battaglia, ma la centralità della guerra ai civili.

Non che la Seconda guerra mondiale non avesse già mostrato cosa significa la guerra ai civili, anzi per certi aspetti quella guerra costituisce il fondamento di un canone bellico.

Tuttavia una volta finita la guerra, quel dato era stato incasellato come devianza, anche se la costruzione della memoria di quella guerra non poteva fare a meno di prendere in carica il fatto che i civili costituivano una porzione consistente dei morti.

Tuttavia, sembrava che in quella dimensione di conflitto, al netto delle razzie volte allo sterminio di coloro che erano ritenuti «sub-umani» – ovvero: ebrei; sinti e Rom; oppositori politici – di cui si poteva abusare  fino alla loro distruzione fisica, perché ritenuti «pezzi» – quel dato ancora fosse valutato come eccezione o al più riconosciuto come parte della identità di un movimento politico divenuto regime.

Quello che sfuggiva allora e rispetto al quale ci siamo a lungo rifiutati di considerare è che lì stava la differenza. Ovvero in quel qualcosa che Zygmunt Bauman ha classificato come modernità dello sterminio che non si sosteneva nella tecnica applicata. Il centro di quella modernità stava ma nel passaggio di classificazione dell’umano da parte di altri umani. Quel passaggio era destinato non a essere una parentesi, bensì una premessa del possibile processo discriminativo del tempo a venire.

Il punto di partenza de Le scavatrici presume la presa in carico di questo dato.

TAG: bosnia-erzegovina, fandango libri, Taina Tervonen, Zygmunt Bauman
CAT: diritti umani

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