Inaugura il primo drag-bar di Milano, dove l’intrattenimento è anche politico
Inaugurato il 19 ottobre 2023 a “Nolo”, come viene chiamata da qualche anno la zona a nord di piazzale Loreto, il DON’T TELL MAMA, è il primo drag bar di Milano. Aperto cinque sere alla settimana, offre un programma settimanale fatto di ironia, leggerezza e divertimento, ma non solo, perchè Marco Kassir, proprietario visionario e attivista del mondo LGBTQ, ha anche un obiettivo politico: scardinare i pregiudizi e offrire un luogo sicuro a chiunque voglia essere se stesso. “I continui attacchi di omofobia rendono le città meno sicure, creare delle safe zone dovrebbe essere un obiettivo comune, – ci racconta Marco- il Don’t tell Mama, nasce così, in una ex macelleria araba, un bar del Village di New York a Milano”. È un ritorno al futuro nei locali che hanno animato la vita e la cultura gay newyorchese degli anni Ottanta e Novanta
Quando e come nasce l’idea di “Don’t tell mama”?
Non nasce tanto tempo prima dell’apertura, nel senso che avviare un locale non è mai stato un sogno nel cassetto. Forse il mio percorso, prima accademico con un dottorato in Letture Comparate a Milano e la specializzazione in gay&lesbian studies alla New York University e poi la lunga esperienza televisiva, mi hanno portato, durante il Covid, ad avere un’illuminazione, un po’ come è accaduto a molti. Una specie di ritorno alle origini, ho ripensato a tutto il percorso fatto, alla mia storia e ho capito che potevo trasformarlo in un elemento imprenditoriale e allo stesso tempo di libertà. Avevo voglia di essere al centro del mio progetto e dare un valore alla memoria. Ho messo insieme i miei ricordi e in modo sicuro, e anche veloce, è nato Don’t tell Mama, che racchiude il me ventenne, la scoperta della socialità e soprattutto dell’identità.
Torniamo alle origini, partendo proprio da New York. Era la fine degli anni ’90, cosa ha significato per te quel periodo sia a livello personale sia come presa di coscienza politica e sociale del movimento LGBTQ?
A New York sono arrivato in seguito al mio dottorato in Letterature Comparate, insegnavo italiano all’università e contemporaneamente ho fatto questa specializzazione, dove ho approfondito i temi delle mia tesi, come la letteratura gay e i cinema studies, con un approccio di genere. Lo studio si è unito alla mia vita e lì ho iniziato a costruire la mia identità. È stato un periodo molto intenso, ho vissuto il dramma delle caduta delle torri gemelle, New York era stravolta e tutto per me ha assunto un significato più profondo. La ricerca della mia identità si univa alla storia collettiva della Grande Mela. New York per me significava conoscere le radici dell’orgoglio LGBT e allo stesso tempo è diventata protagonista di una trasformazione unica, sociale, collettiva e soprattutto mia.
Milano sicuramente non è NY, però forse rispetto a 30 anni fa le cose sono migliorate, qual è la tua sensazione? La differenza fra te ventenne e un ventenne di oggi a Milano?
Le cose sono indubbiamente migliorate, sono avvenute trasformazioni uniche. Sono arrivato a Milano, ventenne, nel ’94, da un piccolo paesino del Trentino, con una valigia piena di desideri e quella è stata sicuramente la mia forza. Il desiderio ti fa smuovere tutto, finché si desidera e ci si sente liberi nel desiderare e alla fine si conquistano i propri spazi. Oggi la situazione è migliorata, ma devo dire che, per me, il mio percorso di conquista e liberazione è stato fondamentale. Oggi diamo per scontate cose che all’epoca non lo erano, per esempio non esisteva nessuna forma di condivisione sociale legata ad alcuni temi. O conoscevi luoghi e microcomunità nelle quali inserirti e raccontarti, oppure erano temi tabù, non ne parlavi in famiglia o con gli amici. Capitava che si ascoltassero delle testimonianze in TV, ma gli intervistati erano sempre ripresi di spalle, quasi fosse un’infamia dire “io sono gay”. Sono però molto legato al mio percorso, è come se avessi una visione romantica di tutti i passaggi fatti per arrivare a costruirmi, banalmente anche l’occupazione di alcuni spazi dei luoghi pubblici che ci erano negati, piccole conquiste, che anno dopo anno ci hanno permesso di arrivare fino a qui.
“Don’t tell Mama” è un locale unico a Milano. Quando hai deciso di aprire un locale queer a Milano cosa ti aspettavi e come sta andando?
Sì è il primo, e al momento unico, drag bar di Milano. Siccome ho fatto una follia e ho investito tutto quello che avevo, mi aspettavo, ovviamente, andasse bene. Ho deciso di riunire i pezzi della mia vita in un locale, in maniera caleidoscopica. Non sapevo realmente come sarebbe andata, ma avevo una sensazione positiva. Mi ricordavo di cosa avevo vissuto a New York, quando frequentavo i piccoli bar del Village, dove entravi e ogni sera potevi assistere a uno spettacolo diverso di drag o trovavi un pianoforte attorno al quale tutti cantavano. Certo la cultura di Broadway era molto forte e si percepiva anche in questi piccoli locali; il mio coinquilino era uno stage manager e mi ha fatto appassionare al mondo dei musical di Broadway. In Don’t tell Mama ho unito queste due anime, il mondo del canto e il mondo drag.
Perchè secondo te nessuno ci ha mai pensato prima?
Non so rispondere. Negli anni la storia performativa drag è stata molto assorbita dalle discoteche, ma anche le drag che oggi si esibiscono da me, hanno espresso questo pensiero: “abbiamo dovuto aspettare il 2024 per avere un drag bar a Milano”
Che tipo di clientela frequenta il locale?
Una clientela estremamente generalista ed eterogenea, con un’età che spazia dai venti agli ottant’anni, con target centrale di 30-55 anni e ovviamente, a seconda delle serate, prevale un pubblico più queer, fino al weekend dove il pubblico è molto più trasversale. Questo, per me, è il vero successo del locale, rappresenta il mio obiettivo politico: vedere unirsi persone di età, generi, orientamenti sessuali così diversi, pubblici che non ritroveresti insieme in nessun altro locale. L’unione che porta alla rottura del pregiudizio. Molti etero sessuali stanno venendo a vedere, anche per la prima volta, uno spettacolo drag e questo è un passo importante per la diffusione di conoscenza e per il superamento dello stereotipo.
Ci spieghi un po’ le sfumature fra queer cabaret, drag show, stand-up comedy?
I drag show si ritrovano già all’origine della storia del movimento, negli anni ‘70, sono spettacoli di drag Queen o drag King che salgono sul palco e performano. La parola queer, che inizia a entrare nel cinema, nelle analisi sociologiche e filosofiche delle nuove rappresentazioni negli anni ‘90, ha uno spettro molto più ampio, quindi si parla di queer cabaret per non identificarlo banalmente in maniera binaria, ma comprendere le tante sfumature dell’identità e il coinvolgimento del pubblico, tipico del cabaret.
Come scegli le performer per le serate?
All’inizio sono partito dalle mie conoscenze, ma è un mondo molto ampio e ci sono tantissime giovani che arrivano a Milano con il desiderio di fare una performance. Oggi esistono anche programmi tv, come Drag Race Italia. Si genera quindi un passaparola che mi sta permettendo di creare una rete. Fondamentale nella mia scelta è la capacità, non solo di fare lip-sync o performance, ma di gestire il pubblico, coinvolgerlo, altrimenti non ci sarebbe la differenza dallo spettacolo in discoteca. Per esempio il mercoledì è dedicato a una serata che nel giro di poco tempo è diventata cult e che si chiama “A.A.A. Cercasi Star Disperatamente”, un format condotto da LaTrape, icona della scena Queer milanese, dove giovani drag Queen e drag King si esibiscono per la prima volta e trovano nel locale una casa, una famiglia allargata.
A tale proposito abbiamo fatto qualche domanda anche a La Trape, drag Queen resident del Toilet Club di Milano, con una lunga storia performativa non solo in discoteca, ma anche a teatro e nei musei.
Come nasce La Trape?
La Trape nasce in quel sottoscala di locale che era il vecchio Toilet Club ormai 10 anni fa. Un clown punk che violava qualsiasi regola di buongusto. Molto è cambiato, la sexyness è diventato un elemento fondamentale del suo drag, ma il clown non riesce a non tornare fuori, è troppo parte di lei.
Che ruolo ricopre secondo te il “Don’t Tell Mama” nel panorama dei locali a Milano?
Il Don’t tell Mama ha riempito un vuoto che esisteva da anni nel panorama della nightlife di Milano: un queer/drag cabaret, un bar che è un piccolo teatro dove dragqueen e queer performer possono produrre e portare in scena i propri show. Senza un posto del genere, difficilmente questə artistə sarebbero riuscitə a entrare nelle programmazioni dei teatri, a sperimentare e creare forme di intrattenimento nuove, belle, divertenti, politiche.
Chi assiste a un tuo spettacolo per la prima volta, cosa deve aspettarsi?
Nel mio spettacolo regna la confusione. Ci si perde tuttə insieme in un grande mare di “boh”. Ma senza l’ansia di non sapere dove si sta andando, ma godendosi la perdizione. Sicuramente io e lə performer, che sono il vero centro del mio show, portiamo in scena comedy, ma anche sensualità, l’assurdo, ma anche la politica. Perché l’arte queer è e deve essere arte politica.
Torniamo a Marco, che porta avanti il suo attivismo anche con un altro evento, il Gender Border Film Festival, di cui è fondatore e direttore artistico, una selezione artistica e cinematografica, ospitata dal teatro Franco Parenti, che si propone di testimoniare l’innovazione e l’inclusione culturale, ma anche di raccontare storie ancora invisibili di corpi non convenzionali, i loro desideri e bisogni.
Ci racconti un po’ come è nato il Gender Border e cosa lo differenzia dagli altri festival sul tema?
Il festival è nato nel 2019, in un periodo in cui la tematica del gender stava esplodendo anche a un livello politico, sociale e culturale. C’era una grande paura di questa parola, ma era ormai evidente che fosse in atto una trasformazione che spostava il baricentro dal diritto di amare al diritto di essere, ovvero l’identità di genere. Un’affermazione sulle tante sfumature di chi siamo e non solamente da chi siamo attratti. Nasce quindi la ricerca e l’interesse di approfondire questo tema, anche da un punto di vista cinematografico, l’identità sessuale, l’identità legata al corpo, all’età, esplorare le infinite possibilità degli individui e scardinare il binario maschile/femminile.
Secondo te quali sono i temi sui quali c’è ancora molto da fare in termini di diritti civili?
I diritti non li abbiamo ancora conquistati, se pensiamo al quadro legislativo, per esempio, non è ancora stata approvata una legge sull’omobitransfobia, non esiste ancora un matrimonio egualitario, ai single e alle coppie omogenitoriali non è permesso adottare. A questo si aggiunge una visione e una cultura ancora pervasa dalla mentalità patriarcale, dove le categorie del maschile hanno ancora una predominanza su quelle del femminile. C’è dunque proprio la necessità di andare incontro a una trasformazione socio-culturale e per questo non bastano solo le leggi.
Il “Don’t tell Mama” è un luogo in cui essere felici e liberi. Tu oggi lo sei? Lo sei sempre stato?
Penso che felici e liberi, come status finale, non lo si è mai veramente. Da quando ne ho coscienza, però, ho sempre inseguito la libertà e di conseguenza la felicità, attraverso il desiderio, quasi un obiettivo quotidiano. La felicità piena non credo esista, ma se uno è mosso dal desiderio, piano piano costruisce pezzi di felicità, da mettere insieme.
Chi entra al Don’t tell Mama per la prima volta cosa deve aspettarsi?
Divertimento, intrattenimento, bellezza, visione estetica e felicità. Prendendo un verso di Broadway “There’s no business like show business”. Soprattutto deve aspettarsi di uscire dal locale con un briciolo di consapevolezza in più. Il Don’t tell mama è molto più di un locale, è una casa artistica, chi viene, sia artisti sia clienti, sa di entrare in un posto sicuro, dove potersi esibire e mostrarsi senza paure. Dare una “casa” ai giovani ventenni per esprimere in sicurezza la loro identità, per me è motivo di orgoglio e felicità ed è l’aspetto politico del Don’t tell Mama, perché l’intrattenimento può anche essere politico.
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