I riders milanesi, ovvero gli sfruttati del post-capitalismo

10 Febbraio 2019

La gig economy, è noto, definisce in maniera non sempre chiara qualcosa che ha a che vedere con un lavoro basato sulla flessibilità e sull’autonomia. In Italia li chiamano spesso “lavoretti”. Il tipico esempio è quello dei riders, coloro che fanno generalmente consegne alimentari utilizzando la propria bicicletta, soprattutto nelle grandi città.

Il luogo comune che li circonda è che siano di solito studenti spesso fuori sede, che arrotondano le loro entrate svolgendo qualche saltuaria consegna. Secondo la piattaforma inglese Deliveroo, una delle più importanti anche nel nostro paese, i loro oltre 5mila riders affiliati sono per oltre due terzi italiani e vengono impiegati in media per circa 13 ore alle settimana, con un altissimo livello di soddisfazione. Dati questi ultimi provenienti dalle loro periodiche indagini interne.

Ma è così davvero? Realmente i “lavoretti” che vedono impegnati questi giovani hanno dalla loro queste simpatiche caratteristiche della flessibilità e dell’autonomia nella gestione quotidiana? Così non sembra, quanto meno non a Milano, uno dei luoghi dove i riders sono sicuramente i più numerosi (si parla di circa 3mila, ma nessuno lo sa con precisione).

Un’inedita indagine effettuata dall’Università di Milano in collaborazione con il Comune, grazie al coinvolgimento di una ventina di studenti che sono riusciti a intervistare personalmente finora più di 200 riders, mostra qualcosa di profondamente diverso dal racconto di alcune piattaforme. Intanto, prima di tutto, sottolinea come quei lavori siano svolti in forte prevalenza soprattutto da giovani stranieri: più del 65% degli intervistati è immigrato, (quasi) tutti con regolare permesso di soggiorno, provenienti in prevalenza da regioni africane (40%) e asiatiche (15%). Considerata la ovvia ritrosia di molti riders nel farsi “catalogare”, è altamente probabile che gli stranieri siano di fatto ancora più numerosi di quelli censiti.

E anche tra gli italiani, gli studenti (universitari) che praticano questa attività sono una esigua minoranza, non superiore al 15% del totale degli intervistati. Ma poi, invece che arrotondare le proprie entrate, pare che quello che svolgono un po’ tutti sia in realtà un vero e proprio lavoro, anzi un super-lavoro, visto che per quasi il 60% li tiene occupati per oltre 40 ore settimanali, laddove soltanto un misero 19% pratica questa attività per meno di 30 ore alla settimana. Con una media generale di 45 ore, ben superiore a quelle 13 ore rilevate da Deliveroo.

Si evidenzia infine un dato preoccupante per la possibile interazione che questi lavoratori hanno con i propri datori di lavoro: quasi la metà degli stranieri conosce poco o nulla la nostra lingua, cosa che ovviamente non permette loro né di avere un dialogo con i più avveduti colleghi italiani o con il Comune o chi potrebbe rappresentare i loro interessi (primi fra tutti i sindacati, che in realtà loro “temono”) né di poter difendere i propri interessi in tema assicurativo o di miglioramento qualitativo del proprio lavoro.

Ne esce un quadro che, paradossalmente, avvicina queste mansioni all’archeologia industriale di fine Settecento o inizio Ottocento inglese, nel capitalismo nascente, quando lo sfruttamento dei lavoratori con forme contrattuali prive di ogni minima salvaguardia delle condizioni lavorative era prevalente nei rapporti tra il nascente proletariato e la classe padronale.

Benvenuti nel nuovo millennio del post-capitalismo.

TAG: gig economy, Riders
CAT: economia sommersa

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