Sanremo e lo stato della canzone italiana
Uno dei saggi più belli che io abbia mai letto è “L’Italia fuori d’Italia” di Franco Venturi nel III Volume della “Storia d’Italia” Einaudi. Un pezzo di bravura strabiliante che attinge agli archivi di mezzo mondo (dal Sudamerica alla Russia alla Polonia, all’Austria oltre che Spagna, Inghilterra, Francia ecc) e cita documenti in almeno otto lingue al fine di ricostruire l’immagine del nostro Paese all’estero in un determinato periodo storico. Non vorrei buttarla in vacca ed essere scomunicato dall’aldilà da Franco Venturi- ma mi piace far cozzare l’aulico con il triviale al solo scopo di vedere l’effetto che fa-, ebbene, se andiamo con questo spirito alla canzonetta italiana vedrete che “l’Italia fuori d’Italia” non è l’Italia vista dall‘Italia. Noi che viviamo dentro i confini nazionali siamo più esigenti e più intolleranti verso il gusto medio dei connazionali, per certi versi ci sentiamo “più oltre” e più avanzati. Stiamo, per semplificare brutalmente, dalla parte di Tenco e non di Orietta Berti (la quale come la DC, un tempo, nessuno diceva di votarla però vinceva sempre). Eppure questa Italia canora che ancora ammalia il popolo, questa Italia nazionale e popolare insieme (ricordo che in Gramsci aveva accezione positiva il nazional-popolare, fu Pippo Baudo che voleva insultare Enrico Manca a dargli accezione negativa, che è poi quella che è rimasta) è quella stessa Italia che è adorata all’estero. In Russia vanno letteralmente matti per Romina & Al Bano, Toto Cotugno, Riccardo Fogli e compagnia cantando (è proprio il caso di dirlo) e sono sicuro che apprezzeranno i tre tenorini che tanto ci fanno storcere le labbra in patria. Così accadrà in molti luoghi del mondo, dal Sudamerica ai paesi dell’Est come anche in Estremo Oriente.
I vincitori di ieri sera interpretano, com’è nelle attese di molti, un filone della tradizione italiana, il pop lirico (che oggi viene furbescamente usato anche come sottofondo della pubblicità di autovetture), creato qualche decennio fa in laboratorio da Caterina Caselli e dalla Sugar con il fenomeno Bocelli e che ha avuto uno strabiliante successo in tutto il mondo. I tre tenorini de Il Volo sicuramente sbancheranno all’estero più che da noi (anche se la loro canzone “Grande amore” è già una hit su Itunes in Italia) visto che noi, di bocca buona, siamo entrati in conflitto (per una serie di ragioni, fondatissime alcune, e altre meno) con la nostra tradizione culturale. Non voglio fare una questione di nomi, ma Malika Ayane, figlia di un marocchino e di una italiana, è superba per stile ed eleganza canora e magistralmente inscritta in questa tradizione anche se più raffinata e “lavorata”.
Per il resto occorre guardare la canzone italiana nel suo complesso: resiste ancora nonostante la sua condizione di assoluta minorità nel teatro linguistico mondiale. È ancora vitale e riesce infine ad imporsi. È quel che conta. Dietro la canzone italiana c’è, come forse in nessun altro Paese al mondo, un “genio collettivo” che riesce ad esprimersi a dispetto della limitatezza dei suoi strumenti di dote di partenza (la lingua, assolutamente minoritaria nel mondo, e anche l’industria culturale, del tutto schiacciata dal mondo anglosassone che detta le regole ) e infine riesce ad essere la capofila, più di quella spagnola o francese (le cui lingue sono più diffuse) della tradizione latina nel mondo. Se poi: o Bruce Springsteen e Deep Purple o niente, e beh, ognuno srotoli il proprio tappetino e faccia compravendita della propria merce (salvo poi scoprire che il re del pop rock Elvis Presley cantava ‘O sole mio).
La canzone italiana è viva e lotta ancora insieme a noi, insomma. Cosa voglio dire? Che c’è una “Italia fuori d’Italia” di cui bisogna prendere atto. Non ci piace, la sentiamo superata, inautentica e stereotipata, e per certi versi lesiva della nostra vera immagine. Ma è quella l’immagine che si è “fissata” nel tempo all’estero: lirismo pieno e dispiegato, senza infingimenti, melodia, sentimento, ugola intinta nell’olio di oliva. Studiarla serve per catturarci anche nella nostra vera essenza, perché quella immagine reca in forma esagerata – come in una caricatura al carboncino-, i tratti di quella che è ancora la nostra immagine anche dentro i confini nazionali. Studiarci come siamo percepiti fuori serve anche a capire come siamo effettivamente dentro di noi. È una comparazione ellittica in cui l’immagine sfocata, eccessiva di fuori serve a mettere a fuoco quella di dentro.
P.S. Impressionante e istruttivo passeggiare per le strade di Amburgo in compagnia dell’amico insegnante di italiano e incontrare lungo l’Alster torme di bellissime e biondissime ragazze tedesche che si fermano a salutare il prof, e chiedere loro: perché studiate l’italiano? E ricevere la risposta sconvolgente: Leopardi? Dante? Petrarca? No: Eros Ramazzotti…
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