Ho accompagnato mio padre a fare il vaccino

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9 Aprile 2021

Per noi ragazzi era sinonimo di matto: “Uè, Paolo Pini!” Usavamo il sostantivo senza nemmeno averlo mai visto questo Paolo Pini, anzi, senza nemmeno sapere cosa fosse un ospedale psichiatrico. La cupa mitologia della malattia mentale si tramandava goliardicamente, attraverso quel nome cognome dal suono rullante. Che poi chiuse per sempre nel 1999: non se la sentiva di affrontare il terzo millennio. Oggi, in questo spazio alberato che accoglieva passi senza meta e pensieri assordanti, c’è il Poliambulatorio di via Ippocrate 45, dove il tendone blu della Protezione Civile accoglie e smista gli over 80 pronti a farsi inoculare il vaccino Pfizer. È sabato. Tra di loro c’è, dopo un mese e mezzo di attesa, anche mio padre.

L’appuntamento è alle 13. Hanno telefonato per avvisarci. Quando passo a prenderlo a casa, un quarto a mezzogiorno, ha appena finito di pranzare. -Così faccio in tempo a digerire -. Pastasciutta al sugo e un’arancia, mi informa. Gli chiedo il formato, mi dice le penne (a lui piacciono i particolari). Era buona? Sì sì. Indossa pantaloni azzurri mai visti. L’avrà costretto a metterli mia madre, che ama “i colori chiari”. E al nero e grigio abbina la tristezza.

– Sei pronto, allora, papà? – Tuo padre ha paura, risponde per lui mia madre. – Veramente, Baruffa? Ma se sei un  highlander! – Lui scuote la testa, forse sorride. – Si, ciao, alander… –

Il primario che stava per operarlo, tre anni fa, mettendogli il tubo idraulico nella pancia, ci aveva fatto capire che la sua situazione clinica generale era brutta, e andava considerato il rischio che non si sarebbe più svegliato. Ma non c’erano alternative: aveva perso un dito del piede e il tallone, e senza intervento che portasse il sangue a quella gamba sterile era destinato a perdere il piede. Alla lunga, anche la gamba. Mi era tornato in mente ‘Il coraggioso soldatino di stagno’, una delle primissime fiabe della mia infanzia. Innamorato pazzo della ballerina di carta, fisso sull’attenti, con una gamba sola. Mio padre si era invece innamorato di una cantante di fuoco, mia madre, e dopo l’operazione si era svegliato preciso, aveva cominciato a rompere i maroni a dottori e infermieri della terapia intensiva, e sul monitor la gamba mostrava, seppur debolissimo, il prezioso flusso di circolazione sanguigna.

Vado a prendere la macchina e mi metto a pelo del marciapiede, davanti al portone, dove mi aspetta con le mani aggrappate al pomello del bastone. Apre la portiera come fosse di cemento armato, mi passa la sua fedele stecca nera, che stendo di fianco al cambio, e al rallentatore conquista la seduta. Appoggia le mani sulla riga stiratissima dei pantaloni.

In Ippocrate però impazza il mercato rionale. Bestemmio senza pronunciare parola, e posteggio appena posso. Saranno 150 metri dall’entrata. Il cruscotto dice 16 gradi. Mio padre resta col piumino, lui sta bene così; ha lo scheletro da uccellino, e le piume gli servono. Io lascio sul sedile dietro il giubbottino fighetto e resto in felpa.

– Vuoi che ti aiuti?

– Sì, che mi stanco meno.

Ok, da una parte io, dall’altra il bastone. Attraversiamo al semaforo e siamo in pieno mercato. Lui butta l’occhio alla targa della via: è un riflesso automatico: ha fatto il ripartitore in posta per chissà quanti anni, i nomi delle vie di Milano li sapeva tutti, e ancora oggi quando gliene spari una, sa dirti almeno la zona. Ippocrate era un medico. Smanetto con la mano libera sullo smartphone per saperne di più. Reputato il padre della medicina moderna. Parliamo del quinto secolo prima di Jesus Christ.

Il roteare lento dei polli arrosto emana la sua sirena abbrustolita, un tizio urla uno sconto stratosferico di sacchi di patate ammassati come una trincea. C’è un gran casino, una flusso disordinato e fitto di gente, cerchiamo di stare più defilati possibile, ma un dribbling ogni tanto è obbligato. Io penso ai teatri. Ai miei amati reading. Agli amici musicisti che hanno un palo nel culo da un anno. Poi smetto. Non posso permetterlo, adesso, di incazzarmi, o anche solo pensare ad altro che non sia il mio babbo pronto al vaccino.

– Maurizio, ma di dov’è questo vaccino? -. Di dov’è?, come fosse un umano.

– Tedesco, papà. Una garanzia. – Come fosse un elettrodomestico.

– Ah, ecco, – risponde, mentre sento che comincio a trascinarlo, che lo sto costringendo al mio passo. Lui non dice niente, ma fa quel suo piccolo gemito, una specie di cigolio che dimostra che ghe la fà pù.

– Resisti Baruffa, ci siamo, – lo incito, e gli indico la nostra entrata, che intravedo dietro la pescheria presa d’assalto.

Intanto che lo sorreggo e avanzo, rispondo a un whatsapp familiare, leggo una mail che aspettavo, curioso ancora su Ippocrate. Trovo la sua frase celebre: “È più importante sapere che tipo di persona abbia una malattia, che sapere che tipo di malattia abbia una persona.” Sarebbe stato un buon medico di base. Per un tipo come mio padre. Guardo il suo profilo aguzzo, la bella testa bianca che resiste, la piccola smorfia che ha sempre, anche da sdraiato, lo sforzo naturale del tiremm innanz inasprito dalla fatica fisica.

All’ingresso un addetto in divisa di qualcosa, informa a ripetizione tutti quelli che passano dal via. E sono perlopiù coppie formate da un uomo/donna di mezza età, e uomo/donna che viaggiano verso i novanta. Siamo noi padri e figli, siamo noi, Bella Ciao, che partiamo…

C’è un grosso ritardo, almeno un’ora. La testa tesa dei tendoni blu è a una cinquantina di metri e l’unica seduta vicina sono i cofani delle macchine. Mio padre appoggia la schiena al muro, posizione solita, mani aggrappate al pomello della terza gamba: vuole stare un po’ così, a riposare, impalato come un lucertola al muro. Raggiungeremo la meta tra un po’, “intanto tu vai a vedere, Maurizio”. Ok papà. Non sono ancora Enea, non sei ancora Anchise.

Il tendone blu è diviso in due. A destra si entra, a sinistra si esce. In questi due tunnel sedie ai lati. Davanti la semina dei candidati. Un centinaio di persone, almeno. Seduti sulle sedie da legno sparse senza troppa geometria, oppure sul bordo di pietra di un muretto ai piedi di un grosso albero. Le coppie assortite di genitore vecchio e figlio stagionato che non hanno trovato posto a sedere sono in piedi, distanziati il giusto, come fuori da un locale a fumarsi la siga. Mio padre si starà fumando le sue due, una ad appicciare l’altra, mentre prende fiato all’entrata.

Dietro un tavolone una donna robusta e premurosa, con la divisa della Protezione Civile. Le faccio la domanda che le comprende tutte. Lei parte con quello che sarà il suo disco fisso da stamattina. A sinistra siedono per un quarto d’ora quelli che hanno appena fatto la dose, prima di andarsene contenti e timorosi a casa. A destra si aspetta che venga chiamato il tuo orario di appuntamento. A quel punto si entra nella sala d’attesa della palazzina, e lì sei in zona calda e guidata. Noi abbiamo appuntamento alle 13. Mancano venti minuti, più l’ora di ritardo.

Mi è stato raccontato che in un appuntamento lungo, quasi in chiusura serale, i sanitari hanno proposto ai figli accompagnatori porzioni di Astrazeneca in avanzo, che un po’ di pirla (traduzione: trottole) avevano balzato. Tutti hanno scoperto la spalla. Regola base in cucina: una volta che scongeli devi far fuori.

Torno a recuperare mio padre. Lo trovo come lo avevo lasciato, murales vivente, con la testa china sulle mani appoggiate al bastone. Le legge, le incita, le ringrazia, le consola. Quando mi vede arrivare, l’osso del collo ha una debole erezione. Lo prendo come prima dal braccio sinistro e si riparte, verso l’accampamento dei nostri coetanei.

Si guarda intorno con una nota di preoccupazione. Ma anche con l’istinto del falchetto, perché parte dritto verso una sedia libera, a due metri laterali dal tavolone. Vicino al dunque.

Una signora distinta, che siede tenendosi la borsetta in grembo, gli lancia uno sguardo fulmineo e discreto, mix di attrazione e compatimento, poi torna alla sua febbrile noncuranza.

Luigi, Gigino per gli amici del tempo che fu, non ha invece alcun interesse per il circostante. Ha trovato la posizione sicura, deve solo aspettare, è nel suo mood. Per lui è normale passare le ore, tipo quelle d’attesa biblica prima di una visita al piede del diabetico, senza far nanca un plissè. Congela il tempo. Da buon Highlander.

Sfilo dalla tasca un fogliettino giallo con la scrittura fitta e morbida di mia madre, dove sono elencati tutti i farmaci che prende papà, con tanto di milligrammi e dosi giornaliere. Gli unici che ho imparato a memoria sono Omeprazolo e Lorazepam: due guerrieri ostinati e buffi, amiconi di Don Chisciotte. Vedendomi emanuense, la signora Civile si impietosisce e mi dice che non c’è bisogno di trascrivere tutto, che posso far vedere il foglietto al medico dentro.

E finalmente ecco una voce, da uno strozzato megafono d’oratorio: “Prima dose 11e54!”. Le teste si voltano tutte verso il richiamo. Passano pochi secondi e arriva un 11e55”, quindi l’11e56. Pare una tombola.

Si avvicina al tavolo un anziano che sembra mio padre, penna bianca e magher magher, ma con gli occhiali (il Baruffa non li usa, e non capisco se ci vede o se crede che il mondo reale sia sfocato; ma tanto i suoi orizzonti sono sempre quelli, e li sa a memoria). Lo accompagna una bella donna, che sul mio personalissimo cartellino deve avere avuto un passato punk. Mi faccio un film sul loro rapporto. L’immaginazione riempie l’attesa.

Mentre il megafono persevera a centellinare tutti i singoli minuti senza che nessuno si muova. Il sosia di mio padre chiede alla figlia dark quale sia il numero del loro appuntamento, convinto che quello che chiamano (dodicidieci, dodiciundici…) sia un codice, e non l’ora. Solo quando la voce scandisce il quarto d’ora secco, si scuote l’attempato parterre.

Noi dobbiamo fare 13. – Mettiamoci tranquilli, pà -, dico a lui, ma l’unico che non è tranquillo sono io. – Vai a prendere la macchina, Maurizio – risponde con l’imperativo. Sta già pensando all’impresa del ritorno. Abbiamo scoperto si poteva arrivare da via Ciccotti, che salta il mercato e punta dritta all’ingresso.

Vado. Posteggio. Torno da mio padre, fisso sul trono.

Le seconde dosi viaggiano rapide, le prime placide. Mia madre e mio fratello chiamano, vogliono sapere, sono già le due di pomeriggio. “Tutto ok. Solo ritardo. Appena fatto vi aggiorno.”

Ed ecco il gong. Aiuto mio padre a sollevarsi e passiamo sotto il tendone a destra, per andare a farci sparare in fronte la temperatura ed entrare, finalmente.

Due tavoli al quale dare il nome, se prima o seconda dose, mentre varie figure d’infermiera o simile si intrecciano a quelli della Protezione Civile. C’è un bel fresco. Il dottore nella prima stanza tratta mio padre come fosse il bambino che è. Spulcia i fogli compilati, io intanto gli racconto le vicissitudini cliniche del babbo, il dottore annuisce, mi dice che non ci sono controindicazione, per nulla, anzi, che come diabetico il vaccino è santo, poi passa a spiegare i possibili effetti del dopo. Mio padre cerca di mostrarsi attento, ma ha già l’espressione di chi accetta la sua condanna e non gli interessano i suoi diritti. Il dottore spiega la possibile febbriciattola, la stanchezza e il corpo un po’ dolorante, ma con molta scetticismo, perché sono rari, rarissimi. – Vedrà che a lei non verranno -, aggiunge rivolgendosi a mio padre. – Ma nel caso di febbre sui 38 o doloretti che non ha voglia di sopportare, prenda una tachipirina. – Ha capito il soggetto: non ha più resistenza al dolore fisico; tutto rimbomba, in lui. Che prende già una tachipirina (ogni tre giorni, è il patto con mia madre), per i dolori fisiologici agli inguini. Bene, tutto chiaro, dico, e mi aspetto che gli chieda di spogliare una spalla. Invece stiamo lì così, il dottore sorride, il suo camice bianco è pulitissimo e ordinato, mi ripassa i fogli compilati, guarda nel corridoio, e finalmente ci dice di andare nella stanza di fianco. Grazie, stia tranquillo, arrivederci.

Luigi con la maglietta abbassata da una spalla, il bicipite pallido e addormentato; una donna minuta e rapidissima, quasi divertita, impugna la siringa lunga e sottile; mio padre strizza gli occhi e serra i denti in anticipo; due secondi netti di iniezione.

Usciamo dalla stanza e vuole sedersi. Si prepara a sentire qualcosa, a intuire l’arrivo del nemico. Lui sente già parecchio, ed è un attimo confondere il nuovo dal persistente. Io intanto vado a prenotare la seconda dose. Tre settimane da oggi. Sempre sabato. Non serve nulla. – Adesso fermatevi un quarto d’ora qui fuori, sotto il tendone -, viene ribadito.

– Allora papà, andiamo sotto il tendone?

– Occhei, Maurizio. Però guarda che sento una cosa che parte da qui, alla tempia, – e ci appoggia le due falangette arrugginite dal filtro delle Diana. Quindi sposta lentamente la mano verso il centro della fronte.

– Chiamiamo un infermiera?

– No, no. Sto bene.

– Papà, siamo qui, digli cosa senti…

Una signora in camice si accorge del siparietto e si accascia su di lui. Cosa c’è, mi dica tutto. Luigi ribadisce questa cosa che si muove dalla tempia verso il centro della fronte. Lei lo aiuta a sollevarsi, e lo accompagna in una stanza lì a due passi, quella delle emergenze. Gli chiede di sdraiarsi, ma il lettino è alto, lui si appoggia un po’ alla Fosbury, io lo sollevo e spingo su, fino a quando la testa è sulla piega da cuscino rigido.

Arriva un’altra infermiera, e pure una della Protezione Civile, sempre con quel mix di premura e allarme. A mio padre piace tanto essere accudito, protetto, monitorato, ascoltato, e non disdegna anche un po’ di compatimento. Insomma, qui sdraiato sta da Dio. Gli misurano la glicemia, 150, che se ha mangiato prima di venire è nella norma, e la pressione, 120/82, perfetta, da invidia. La mia.

Lo invitano a stare tranquillo, che gli mandano un dottore.

– Papà, come va? Senti ancora quella cosa alla tempia.

– Meno. Molto meno.

– Sta passando quindi?

– Sì. Andiamo a casa Maurizio.

– Mah… Sei sicuro?

– Sì sì, sto bene.

Lo aiuto a sollevarsi, mentre entra un giovane dottore con la prima infermiera. Mio padre ormai vuole andarsene. Ha ottenuto la sua rassicurazione. Il fantasmino se n’è andato. Dice anche che è passato un quarto d’ora e non vuole fermarsi nel capannone. Va bene, come vuole, dice il dottore, che sembra comunque voler fare qualcosa (deduco che non ci siano grandi emergenze in corso; forse nessuna.) Li rassicuro che va tutto bene, che il soggetto ha avuto una botta di suggestione, che non vorrebbe correre a casa, se avesse davvero paura di qualcosa.

Usciamo dentro un coro di saluti.

La sera, a cena, ha mangiato la crescenza, le olive, un pacco di grissini, e una banana. La temperatura non ha mai superato i 35.80. La tachipirina l’ha presa lunedì. Ma quella era nei patti.

 

 

TAG: figlio, padre, Vaccini
CAT: Famiglia, relazioni

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