Il chitarrista più bravo del mondo

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21 Giugno 2021

Il mio amico Leonardo Marcucci ha percorso una strada solitaria ed impervia. Costretto ad andare a lavorare da ragazzino a causa della perdita del padre, durante periodi di solitudine e malattia ha imparato a suonare la chitarra partendo non dall’inizio, ma dall’imparare a suonare a memoria interi dischi della PFM, avendo ascoltato le  armonie ed avendole cercate e trovate sulla sua sei corde. Poi, per provare soddisfazione, ha scoperto che la perfezione non era abbastanza, ed ha iniziato a suonare quelle sei corde come se fossero contemporaneamente chitarra, basso e batteria. Andatelo a vedere quando suona dal vivo: il risultato è stupefacente.

Leo Kottke ha fatto lo stesso. Suo padre doveva cambiare Stato degli USA ogni due anni e lui, nato in Georgia, ha imparato a suonare in Virginia, poi in Minnesota, e via di seguito. Di ogni luogo ha interiorizzato lo stile, la tecnica e la dinamica. Nel 1968, a 23 anni, nessuno lo conosce, ma un grande maestro della chitarra classica, John Fahey, lo ha scoperto e lanciato come “il miglior chitarrista del mondo”. Leo suona con un apparecchio acustico, perché durante il servizio militare come cannoniere ha quasi perso l’udito.

Leo e Mary Kottke, 1968

Inutile dire che, nell’arco di due anni, l’intero mondo musicale americano lo scopre ed impara ad amare questo ragazzotto timido ed introverso, campagnolo ed intellettuale, che non suona concerti e non registra dischi se non c’è sua moglie Mary ad approvare. Lei, calma e bellissima, ha creato un sistema per fargli ascoltare la musica senza apparecchio, posando la sua bocca sulle sue tempie e trasmettendo le vibrazioni in un modo che solo l’amore può spiegare.

Trovare suoi dischi in Italia era praticamente impossibile. Aspettavo le trasmissioni notturne della radio della Svizzera italiana, che aveva una trasmissione di country che, spesso, ce lo faceva ascoltare. In onde medie, da Roma, in qualità veramente difficile da distinguere, ma chi ci ha mai fatto caso? Finché mi sono innamorato anch’io e, invitato per la prima volta a casa di lei, ho scoperto che aveva una copia del suo disco migliore, “Mudlark”. Non ho idea di che espressione avessi in viso, ma lei me lo ha regalato quel pomeriggio stesso, ed io lo conservo ancora come una preziosissima reliquia.

Leonardo Marcucci con la cantante Jole Canelli, 2020

Poi è arrivato il grande successo, qualche disco un po’ più pop (e quindi un po’ stucchevole), le notizie che dicevano che stesse sempre peggio e che, a un certo punto, avesse bisogno di Mary anche sul palco. Erano anni di riviste musicali che sembravano arrivare dallo spazio e raccontavano di artisti che, ne ero sicuro, non avrei mai avuto la possibilità di vedere dal vivo. E nel 1983 la notizia: Leo deve smettere, e lo deve fare subito, perché la sua tecnica chitarristica gli ha fatto venire una tendinite cronica, non può più tenere una chitarra in mano senza gridare dal dolore.

Ora sono passati altri 40 anni e la medicina gli ha restituito l’udito e le mani, e Mary suona con lui, perché con gli anni ciò che prima faceva da solo devono farlo in due. Ma a chi importa? “Mary ed io viviamo in un eterno mattino di sole autunnale, le foglie rosse che ci volano attorno, e la brezza tiepida che ci stringe l’uno all’altro” ha detto nel giorno del suo 50° anniversario di matrimonio, tre anni fa. Ed anche se voglio bene a Leo (Marcucci) come ad un fratello, lui non sarà mai come Leo Kottke. Di chitarristi così ne nasce solo uno ogni mille anni, temo.

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