Il nido del cuculo racconta ancora la libertà
Bisognerebbe dividerlo almeno in tre questo articolo. Un po’ come per l’interprete tratteggiato da Pierce: prima l’emozione, poi l’energia, infine la logica. Ma non sarò (mai) così strutturato né tantomeno strutturalista, men che meno semiotico. Dunque procedo per accostamenti più disinvolti. Però provo a tripartire il passo.
Intanto il contesto, che è una bella sorpresa.
Sono arrivato al Teatro Bellini di Napoli sulla scia emotiva di una sonora e quanto mai discutibile “bocciatura” da parte del Mibact nell’ambito della nuova riforma del teatro italiano. Il Bellini ha una storia particolarissima: è stata a lungo la “casa” di Tato Russo, attore e regista di cui condividevo poco lo stile degli spettacoli. Tato ha però avuto il merito innegabile di riaprire questo teatro bellissimo – davvero un gioiello dell’Ottocento – in pieno centro di Napoli, salvandolo dall’abbandono e dall’incuria. Da qualche anno, la gestione del Bellini, che era il terzo Teatro Stabile Privato d’Italia nel vecchio ordinamento, è passato nelle mani dei tre figli. Che hanno fatto, semplicemente, una bellissima rivoluzione.
Arrivando, incontri al botteghino bigliettaie carine, gentili e sorridenti; attraversi l’atrio tutto specchi, ori e locandine d’antan; superi la libreria di Marotta e Cafiero (un bell’esempio di imprenditoria giovane), e scendi in un bar ipercontemporaneo e di colpo ti sembra di stare a Berlino.
I tre Russo hanno reinventato il pubblico; hanno aperto una scuola vivacissima (completamente gratuita) affidata a un maestro come Danio Manfredini; hanno innovato radicalmente programmazione, ospitando il contemporaneo e producendo spettacoli dal segno innovativo, con bel successo. La città di Napoli, certo non facile, ha riconosciuto e premiato questo cambiamento di rotta, che ha portato attenzione da parte della solerte critica locale, e una fidelizzazione degli spettatori, con un bel ricambio generazionale anche in platea.
Dunque era legittimo da parte dei Russo ambire al riconoscimento come Teatro di rilevante interesse culturale (i Tric). E invece no: doccia gelata. Qualcuno ci spiegherà perché il Bellini, almeno per i prossimi tre anni, non sarà Tric ma Centro di Produzione.
Detto velocemente del contesto, passiamo al “testo”, ovvero il debutto in prima nazionale di Qualcuno volò sul nido del cuculo, con la regia di Alessandro Gassmann.
Da tempo seguo con attenzione, per quel che posso, il percorso di questo giovane (è ancora giovane, sì) attore e regista, finalmente affrancato dalla categoria non sempre comoda dei figli d’arte.
Noto come stia affinando quel suo stile, sospeso tra cinema e teatro. Mette a punto la sua cifra, lavoro dopo lavoro, incontrando sempre più i favori del pubblico: Gassmann mira a una comunicazione vivace, immediata. Difende la narratività, la trama, e lo fa integrando smaccatamente gli strumenti cinematografici dell’immagine riprodotta e della musica come elementi drammaturgici primari. Di Qualcuno volò sul nido del cuculo è emblematico, a questo proposito, l’escamotage finale, la soluzione inventata dal regista per risolvere la bellissima sequenza di riconquistata libertà di uno dei pazienti della clinica.
Qualcuno volò… è un testo difficile: ovviamente tutti tornano con la mente al bellissimo film di Milos Forman. Dunque bene hanno fatto Gassmann e Maurizio de Giovanni (artefice dell’ottimo adattamento) a guardare piuttosto al romanzo di partenza, scritto da Ken Kesey nel 1962, dal quale aveva preso le mosse anche Dale Wasserman, dieci anni dopo, per farne una versione di Broadway che fu base per la successiva sceneggiatura di Forman.
Ottimamente funziona l’ambientazione, traslata in Italia di vent’anni, nel 1982, in un “manicomio criminale” come quello tristemente noto di Aversa.
Proprio a ridosso della chiusura definitiva dei famigerati OPG, gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, dichiarata ad inizio di questo mese, arriva lo spettacolo, che ha dunque una valenza interessante. Al di là della denuncia sociale, che pure resta forte, il lavoro ha una specificità. Di fatto, più o meno dall’indimenticabile Marat/Sade di Peter Brook, realizzato nel clima aspro di Artaud e del teatro della crudeltà, qui sono degli “attori” a rappresentare la follia. Suona quasi come una novità curiosa, perché da Brook in poi, il teatro italiano sembra aver scelto, infatti, e sempre più, di portare in scena direttamente i “matti”, ossia la realtà, la verità del disagio mentale. Che è una strada altra, altrettanto legittima e appassionante, che scaturisce ancora una volta dalla febbrile lezione artaudiana. Qui, invece, si tratta di rappresentarla, la pazzia, in tutte le sue declinazioni concrete: non sofismi pirandelliani, ma per quella che è, o potrebbe essere, in un OPG. Dunque sono bravi gli interpreti a dar corpo e voce a bipolari, schizofrenici, monomaniacali, paranoici, depressi…
La vicenda, come è noto, è ancora pre-basagliana, ambientata prima cioè della grande lotta fatta da Franco Basaglia, da sua moglie Franca Ongaro e dai tanti che hanno appoggiato e sostenuto quel meraviglioso percorso. Dunque ci troviamo in un manicomio oppressivo, violento, dententivo e punitivo. La malattia mentale è stigmatizzata, repressa. L’angelo della morte ha le sembianze di una suora (e il bel volto della bravissima Elisabetta Valgoi) madre-padrone implacabile nell’imporre le “regole”; la scheggia “impazzita”, ossia sana, ha invece la vèrve di un piccolo delinquente (notevole la prova di Daniele Russo nel ruolo che fu di Jack Nicholson) che si finge matto per aggirare il carcere, ma che pagherà con la vita la sua inquietudine libertaria, a colpi di elettroshock e lobotomia.
Poi è la piccola corte dei pazienti, dei ricoverati (da citare tutti gli interpreti: Mauro Marino, Daniele Marino, Marco Cavicchioli, Alfredo Angelici, Giacomo Rosselli: ognuno calibratissimo), affiancati dal personale (Giulio Janni, Gabriele Granito, Antimo Casertano, Giulia Merelli) che danno vita a una micro-comunità in cui spicca – in tutti i sensi – l’enorme silenzio di Capo Bomden (l’imponente Gilberto Gliozzi, al suo debutto): solo lui riuscirà a fuggire in una riconquistata dignità.
Gassmann, si diceva, tiene lucidamente le redini della narrazione. E se pure non mancano piccole insistenze didascaliche, e qualche eccesso melò (allo spettacolo gioverebbe, qua e là, una maggiore asciuttezza) firma un affresco che ha ben saldo il nocciolo – il problema centrale, come diceva il critico filosofo Adriano Tilgher – della storia, della narrazione, dei personaggi. Liberandosi in fretta e intelligentemente dal confronto con il film, approda a una “attualizzazione” efficace, per qualità e identità: e spiattella in scena, senza mezzi termini, le contraddizioni ancora vive, allora come oggi, del sistema “sanitario” nazionale.
Qualcuno volò sul nido del cuculo è uno spettacolo serio, coinvolgente, a tratti appassionante, certamente ben fatto: e il clamoroso successo al Bellini sembra proprio confermarlo.
Infine, la terza considerazione, che è una nota a margine, ma importante. Nel giorno della scomparsa di un monumento del teatro come Judith Malina, lo spettacolo porta in epigrafe una dedica: “A Manrico”, dice semplicemente. È un omaggio alla figura di Manrico Gammarota, attore di spessore, amico e sodale di Alessandro Gassmann in tanti allestimenti e film. Manrico Gammarota se n’è andato, per sua scelta, troppo presto.
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