Il voto per i sindaci e la Sinistra assente

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8 Giugno 2016

Che cosa mai si potrebbe aggiungere al bla-bla delle estenuanti maratone televisive elettorali, ai dibattiti sulle geometrie dei partiti, sulle beghe tra correnti, sui matrimoni d’interesse delle coalizioni e, in sempre maggiore misura, sui tweet dei leader e leaderini? Comunque vadano i ballottaggi, le urne raccontano già una prima importante crisi di consenso del renzismo. La narrazione un po’ sbruffona dell’«Italia che riparte» può funzionare per un certo periodo, sostenuta dalla voglia diffusa di rottura con la vecchia classe politica, dalla necessità dei ceti più dinamici – dotati sinora di risorse, ma non delle leve del potere – di entrare nella stanza dei bottoni. Ma quando il ceto politico, nuovo o usato e riverniciato che sia, è costretto a confrontarsi direttamente con l’elettore delle periferie, della provincia, di quella parte di Paese colpita più duramente dal nostro declino economico, e quando il governo delle città – con tutte le differenze del caso, perché Trieste non è Roma – deve fare i conti con la crisi dello Stato, non c’è più alcuno storytelling che tenga.

Il PD renziano ha convinto i pariolini, ma non riesce a convincere né gli abitanti di Tor Bella Monaca, né i padroncini in crisi dei distretti industriali del Paese. In tutti i luoghi in cui vivono – male – le classi disagiate, i proletari, i sottoproletari e i declassati, gli orfani dello stato sociale, la Sinistra – la Sinistra tutta, non il solo PD renziano – è in via di sparizione, senza per questo riuscire a radicarsi nei cimiteri della piccola e media impresa. La lezione della storia, di materialistica chiarezza, è che, senza rivoluzioni in vista, è il “welfare esteso” a legare la Sinistra politica alle masse. Sono – erano – rimasti gli asili, le case popolari, gli assegni sociali e i posti di lavoro nelle partecipate a indirizzare il voto di un certo elettorato ora astensionista, se non grillino o leghista. Nelle nostre città, lontano dai «luoghi della Bellezza» decantati da Renzi e protetti dalle signore col doppio cognome, questo distacco si mostra in tutta la sua evidenza ogni santo giorno.

Si mostra alla fermata dei mezzi o al bar, luoghi in cui la classe politica ormai si guarda bene dal comparire, in quartieri di case popolari, di appartamenti per i lavoratori della tal municipalizzata che hanno votato PCI-PDS-DS-PD sinché hanno potuto toccare con mano il loro relativo benessere materiale. Pane e lavoro, si diceva un tempo. Con la crisi del debito, questo sistema è collassato. Quelle stesse persone e i loro figli oggi votano Lega o Movimento 5 Stelle, e tra loro monta l’odio per lo straniero capitalizzato dai Salvini di turno. Renzi e i suoi pards hanno il torto di essersi completamente disinteressati a queste realtà. La loro miscela di culto dell’impresa, paternalismo democristiano e americanismo à la Nando Mericoni non è adatta a rappresentare le periferie. Ma del processo di distacco tra la Sinistra e i ceti popolari si discute da almeno due decenni, come sanno bene tutti gli apparatčik postcomunisti che non hanno digerito la scalata renziana al PD.

Costoro non hanno mai ritenuto opportuna alcuna seria autocritica, hanno fatto finta di non sapere che le masse erano già perse da tempo, da quando il giovane Renzi concorreva alla Ruota della fortuna, forse da prima della fine del PCI. Frequentando ciò che rimane della borghesia di sinistra – o rivedendo il cinema di Ettore Scola – è possibile capire quanto classista fosse quella che un tempo è stata sinistra di classe, quanto fosse grande l’inconfessabile disprezzo nutrito dagli intellettuali per i salariati. Rifiutate sia la rivoluzione che la socialdemocrazia propriamente detta, la nostra Sinistra si è ritrovata a distribuire ciò che la DC elargiva. Spesso con intelligenza – inutile citare il solito caso emiliano, altrettanto spesso con grande cinismo. Basta uno sguardo alle nostre periferie, il risultato di una convergenza di interessi tra palazzinari, “architetti utopisti” – Dio ce ne scampi! – e funzionariato politico.

Sorpresa: nel momento in cui le clientele cessano di esistere, perché i bilanci pubblici collassano, i clientes rompono le righe. E trovano immediatamente il loro capro espiatorio nell’Unione Europea o nei migranti in fuga da guerre e miseria. Dare la colpa di tutto alle «TV di Berlusconi», contro le quali poco potevano le armi assai spuntate delle nostre professoresse democratiche, è sintomo di pigrizia o disonestà intellettuale. La xenofobia e il razzismo sono sempre orribili, in particolare se prendono la forma della guerra tra poveri, ma d’altronde quale livello di tolleranza è mai possibile pretendere da un disoccupato ignorante se sono le stesse figlie dei senatori del PCI – in mia presenza – a lamentarsi dei «negroni» [sic] incontrati per strada? Nessun vecchio figiciotto lo ammetterà mai, ma la verità è che la Sinistra ha smesso di comunicare con la maggior parte dei suoi elettori, contando sulla loro fedeltà come su quella di un gregge di pecore, dimenticando come le pecore, in determinate condizioni, si possano trasformare in lupi.

La subalternità sociale è un problema da risolvere o un potenziale politico da coltivare? Questo è il grande paradosso del riformismo, almeno a partire dalla fine delle utopie. Finora si è deciso di ignorare del tutto il problema, salvo piangere una fantomatica “perdita di identità” o lamentare lo spaesamento della “nostra gente” (?) di fronte a questioni che interessano in realtà soltanto il ceto politico. Se Renzi piange, la Sinistra PD non avrebbe insomma nulla di cui ridere, perché, una volta eliminato il fastidioso toscano, rimarrebbe soltanto un deserto che loro stessi hanno contribuito a creare. Rimane da menzionare l’ultimo pezzetto della mia grande famiglia politica («es una familia un poquito de mierda, pero es siempre nuestra familia», diceva Fidel a Bobo in una memorabile striscia di Sergio Staino): gli opliti della Vera Sinistra, i professionisti dell’antirenzismo, fuoriusciti dal PD o mai entrati in Parlamento. La loro insignificanza è certificata, il voto “di protesta” si indirizza altrove, perlopiù a destra, come in altri periodi oscuri della nostra storia. E per chi come me ha scelto Renzi proprio per arginare il populismo dei muri, dei nazionalismi e dei deliri complottisti, questo è un grande problema. Peggio che perdere il governo della Capitale.

La foto di copertina è di Daniela Fontes.

TAG: classe e partito, Matteo Renzi, partito democratico, pci, periferie, Riformismo
CAT: Partiti e politici

2 Commenti

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  1. renato2200 8 anni fa

    renzi resiste nei quartieri ricchi , il resto e’ altro

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  2. andrea-adream 8 anni fa

    Bell’articolo. Ma la sinistra si recupera solo se viene abbandonato il paradigma ideologico del mercato come forza salvifica. Il monetarismo, ha fatto il suo tempo dimostrando la sua inefficacia. Il privato non è la soluzione all’inefficienza.; la soluzione ad uno stato inefficiente è renderlo efficiente, perché solo lo stato può farsi garante dell’interesse generale, laddove il privato persegue solo il profitto personale ed il fatto che il suo agire possa favorire in qualche modo la collettività è solo un prodotto incidentale, uno scarto del suo operato.

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