Renzi racconterà un’altra favola, ma stavolta non può proprio stare sereno

6 Giugno 2016

E adesso sarà davvero dura, per Matteo Renzi, continuare a raccontare la favola del voto locale che non ha niente da dire sul livello nazionale. Sarà davvero complicato, per un premier che come secondo lavoro fa il segretario del suo Partito Democratico, dire che il primo turno delle elezioni amministrative di ieri non lo riguarda né come capo del governo né come capo del suo partito. Perché prima delle singole situazioni cittadine di cui sotto parleremo, su cui gli elementi nazionali pesano in misura variabile ma altrettanto inconfutabile, ci sono elementi di contesto nazionale che valgono per tutte, e che non si possono negare. Un contesto il cui perimetro è disegnato a immagine e somiglianza dall’uomo politico più accentratore e protagonista che la politica democratica italiana ricordi, fatta eccezione naturalmente per Silvio Berlusconi. E quando un politico decide, in parole e opere, di giocare un’ordalia permanente su di sé, sul proprio carisma, sulle proprie scelte, perfino sulla propria antropologia, quando si vota per il sindaco delle principali città italiane, e alle urne devono andare circa un terzo degli italiani, diventa difficile sottrarsi all’interpretazione che vuole una tornata elettorale così importante come uno dei tanti passaggi di un lungo referendum su Matteo Renzi.

Da un lato, la politica dei continui proclami di ottimismo e dei risultati conseguiti, delle tantissime cose fatte e sempre elencate al limite tra vanteria e pedanteria, della crisi in via di soluzione, delle sfavillanti misure di rilancio, dei dati ballerini sulla congiuntura che vengono sempre piegati alla bisogna, evidentemente non basta. Non basta a calcificare il consenso in un paese affaticato anzitutto da se stesso e dal suo modello di sviluppo, da una piramide demografica svantaggiosa, da un sistema industriale che non tiene più. Non a caso citiamo nodi strutturali di una storia lunga, e che per di più rientrano ormai nel contesto europeo che ancora più grande è nelle dimensioni e nelle complessità, e ancora più pazienza, sapere, sguardo di lungo periodo richiede per essere affrontato. La sproporzione tra le sfide da affrontare e la strategia messa in campo – tutta comunicazione di breve respiro, sempre con i sondaggi in mano – pare chiara. I dati di dettaglio li capiremo andando avanti, ma già adesso possiamo affermare senza troppe fatiche che nel bacino di riferimento di queste elezioni l’area politica che fa capo al premier prende una scoppola di quelle memorabili, e i voti perduti (prendete a riferimento il termine che preferite: le scorse amministrative, le scorse europee del trionfo, le scorse politiche dell’arrancare bersaniano) si contano nell’ordine delle centinaia di migliaia. Sono decine di migliaia sulla sola Milano, mentre a Roma si andrà a contare un dimezzamento secco rispetto agli ultimi tentativi elettorali. A Napoli il centrosinistra perde meno: è in effetti più difficile perdere dove per la seconda volta consecutiva non si arriva neppure al ballottaggio. Diciamo che perde anche lì, diverse decine di migliaia di voti, ma pesano meno che tanto il Pd non governava da un pezzo. La perdita di consenso in termini relativi e in termini assoluti è evidente, schiacciante, innegabile perfino per la solerzia della propaganda renziana. Impone di guardare in faccia a una realtà: nel paese il consenso all’azione di governo è in forte calo. I risultati percepiti, la fine della crisi e il rilancio dell’economia, evidentemente, non sono allineati con quelli proclamati. La visione di società che viene spinta e propagata non riesce a prendere il mitologico ceto medio, scopre il fianco a sinistra senza più sfondare al centro (che forse non c’è più), e basta che gli altri (chiunque essi siano) esprimano un candidato presentabile e che declini il congiuntivo, e il Pd di Renzi rischia di perdere più o meno ovunque. Ancora, e per chiudere: evidentemente i risultati propagandati non sono abbastanza percepiti da un paese che può forse accettare di tirare ancora la cinghia, ma non di sentirsi raccontare che va tutto benissimo.

Questi sono i problemi del premier che fa i conti con la sconfitta. Poi, non minori, ci sono quelli del segretario, del capo di partito, dell’uomo che per definizione supervede alle scelte strategiche, all’indirizzo politico, alla crescita di una classe dirigente organica a un progetto di azione politica e di potere. E anche qui, signora mia, son dolori. A Roma comanda con un manipolo di fedelissimi toscani immortalati con sagacia da quel vecchio arnese di Ugo Sposetti: “Ma non è incredibile che tutti i migliori cervelli di una generazione siano nati negli ottanta chilometri che dividono Firenze da Arezzo?”. Hai voglia a dire che è la bava alla bocca di un rottamato: diventa difficile negare che la battuta colga, amaramente, una verità. Perché un partito e un paese si possono anche scalare, a certe condizioni, in pochi anni, soprattutto quando un ciclo politico e generazionale mostra la corda, e ha avuto troppe occasioni e le ha sprecate per chiederne ancora una. Ma poi, per restare fruttuosamente in cima dentro a questa strana bestia che si chiama democrazia, servono saperi solidi, relazioni strutturate con i mondi rappresentati (quali? quando? dove?), il giusto mix di esperienza e coraggio, una visione precisa e paziente. Da queste parti, insomma, per dirla tutta, possiamo anche non scandalizzarci per un’alleanza tattica con Verdini in assenza di alternative: ma bisogna sapere dove si vuol portare la nave e, nel frattempo, avere chiaro che per il futuro serve una classe dirigente propria degna di questo nome. E che mentre si governa bisogna lavorare per formarla, non per reclutare obbedienti replicanti scelti con un gesto delle dita per essere piazzati dove serve, e dove un sistema elettorale e costituzionale cuciti su misura (propria, se va bene, di Di Maio, e il cielo non voglia, se va male) consentono di farlo.

Di questo percorso faticoso e lungo, diciamocelo pure, non abbiamo visto nemmeno l’ombra, e i risultati di ieri sono il primo grido, assordante, di un allarme che somiglia ad un avviso di sfratto. Non già esecutivo, anche perché l’inquilino non vorrà farsi sfrattare, ma da prendere sul serio se non vuole che la sua parabola politica, partita carica di promesse di una vera nuova stagione, non finisca archiviata in pochi anni come una parentesi visionaria e un po’ sballata, una specie di trip da cui ci si sveglia con il mal di testa e la casa – ancora una volta – da rimettere in sesto.

I risultati delle città, del resto, raccontano proprio questo. Un paese che dove può, al di là di ogni concreta valutazione sulle capacità di chi si candida ad alternativa e senza davvero pesare i meriti delle forze in campo, vota contro il Partito Democratico. Quantomeno, all’alternativa, anche improvvisata, anche fragile, concede la chance di potersela giocare. Non è affatto poco.

Partiamo da Roma, che nonostante tutto i simboli hanno la loro importanza, e la capitale resta pur sempre la capitale. La decapitazione di quell’imbranato di Ignazio Marino, avvenuta a mezzo di dimissioni imposte con la forza dal Pd romano alla maggioranza dei consiglieri che lo sostenevano, è stata annunciata da Renzi, in televisione, diversi mesi prima di avvenire. “Fossi in Marino non starei sereno”, disse, subito dopo aver mezzo perduto le elezioni regionali dello scorso anno. Mesi di logorio, di retroscena pilotati per far arrivare messaggi, in una House of Cards (permetteteci l’autocitazione) gestita forse con un po’ troppa leggerezza, e senza aver fatto bene i conti col futuro. Che è vero che serviva dare la colpa a qualcuno del consenso in calo, figurarsi, ma uno straccio di piano b bisogna averlo. Direte: ma lui il piano b ce l’aveva, era mandare al macello i Cinque Stelle, a governare Roma senza dargli neanche il becco di un quattrino, e poi esporli al pubblico ludibrio che meritano gli incapaci, e ricominciare da zero.

Lasciando perdere le obiezioni di correttezza che si imporrebbero anche in quel mestiere di sangue e merda che è la politica, andrebbe notata ancora una volta la spericolatezza di un disegno ad altissimo tasso di rischio, e senza vere garanzie di classe dirigente. Già, perché il povero Roberto Giachetti ha condotto in solitaria una campagna al limite dell’eroico, contando che è un politico serio e di alta scuola, e si è trovato a tenere insieme i cocci di un partito flagellato da Mafia Capitale, sputtanato dall’obbedienza supina a chi chiese di far di dimettere Marino, non rigenerato in nessun modo dalla leadership renziana, del tutto impreparato alla sfida improbabile. Si dice, infatti, che quello di Giachetti è un risultato miracoloso. Chi non crede ai miracoli sa che i miracoli succedono sempre nella testa di chi se ne sente beneficiato. I numeri dicono che a Roma il pd, quando Giachetti avrà chiuso attorno ai 300 mila voti, potrà contare in 200 mila – duecento mila, duecento mila – i voti che ha perso, sia prendendo a riferimento le elezioni comunali del 2013, che le trionfali europee dell’anno dop0. Più che la moltiplicazione dei pani e dei pesci, siamo di fronte a un dimezzamento: che come miracolo lascia con la testa perplessa e, soprattutto, la pancia vuota. Il miracolo romano riesce al contrario, invece, quasi perché manca poco che al ballottaggio vada quel volto nuovo (battuta) di Giorgia Meloni, e per di più senza l’appoggio di zio Silvio, che si intestardisce su Marchini al punto da sembrare motivato a fare un favore a Renzi e, soprattutto, uno sfavore – ben raccontato qui da Gianluca Roselli – a quei due giovinastri oggettivamente inadeguati a raccoglierne l’eredita che sono Giorgia Meloni e Matteo Salvini. Il miracolo l’ha fatto Berlusconi. Ma proprio un miracolo ci vorrà, invece, tra due settimane, per evitare che il primo sindaco donna di Roma si chiami Virginia Raggi e sia eletta sotto una corona fatta di Cinque Stelle. La scommessa del pd e di Renzi è nota: i populisti a Cinque Stelle sono improvvisati, e noi abbiamo il coltello dalla parte del manico, e la borsa dalla parte del cordone. Agli improvvisati statisti a Cinque Stelle la patata rovente di Roma, un debito mostruoso, una città ingovernabile, un casino ciclopico e ingestibile, insomma, brucerà le dita in men che non si dica. La scommessa può avere il suo senso politico, difficile prevedere in che condizioni si troverà poi la città e il suo corpo elettorale. Difficile escludere a priori nuove rabbie. Ma c’è anche il caso, remoto, remotissimo, per carità, nell’ordine dell’1/2 per cento di possibilità, che i ragazzi a Cinque Stelle la sfanghino. Se la cavicchino. Si inventino qualcosa. E se sopravvivono a Roma, come potranno non essere eleggibili anche per gli altri palazzi romani?

Del resto, il caso di un populista che esce palla al piede dai cinque anni di governo, si appresta a rivincere largo al ballottaggio e dopo aver governato una grande città c’è. Non è nei libri di storia, è sui giornali di oggi, e si chiama Luigi De Magistris. Napoli meriterbbe un ampio racconto a parte, e speriamo di offrirvelo sulle nostre pagine. Ma certo, è l’emblema di una storia che cinque anni fa nessuno immaginava di raccontare. È la storia di una città in cui succedono cose brutte, come ne sono sempre successe tante, ma anche cose belle. In cui nuove iniziative imprenditoriali e un nuovo vento di partecipazione sono percepiti e raccontati da tanti che non avevano – e ancora non hanno – particolare simpatia per il sindaco ex pm. In cui, soprattutto, mentre i vecchi partiti riciclano per l’ennesima volta lo stesso candidato (il centrodestra di Lettieri) o promuovono Valeria Valete fedele allieva di Bassolino a sua antagonista e simbolo del ricambio generazionale, la politica che incrocia movimento e governo ha trovato una sua fisionomia. Quella di De Magistris. E una città da sempre schernita, nei palazzi come allo stadio, nei salotti di Milano e in quelli di Roma, ha ritrovato un suo orgoglio che è insieme quello di metropoli meridionale e anche di laboratorio politico. Sia chiaro: la Napoli di De Magistris non è diventata New York, ma il confronto col passato, evidentemente, ai napoletani è sembrato democraticamente sensato a vantaggio del presente del futuro di De Magistris. Il suo esperimento, la sua sicura conferma al ballottaggio, non è solo un mandato a governare per altri anni la città ma anche quello, innegabile, a diventare figura di riferimento di un’area politica, a sinistra di Renzi, decisamente in cerca di autore.

Da una roccaforte della sinistra istituzionale che ormai è solidamente in altre mani, come Napoli, passiamo a due casi diversi e analoghi di città che a sinistra sono sempre state, i sindaci uscenti del Pd escono in vantaggio dal primo turno, ma la partita non è chiusa e, soprattutto, il margine non è ampio come ci si aspettava. A Bologna il sidnaco uscente Virginio Merola, che sembrava l’unico che realisticamente poteva sperare in una vittoria al primo turno, si ferma dalle parti del 40%. Più o meno quanto fanno la somma dei voti della candidata leghista Lucia Bergonzoni, che andrà al ballottaggio, e Massimo Bugani dei Cinque Stelle. Immaginare una sconfitta al ballottaggio per Merola è difficile, gli ottimisti del centrosinistra dicono “comunque impossibile”. I numeri son questi e dicono di un clima generale al di là e oltre qualunque valutazione locale. La Lega Nord al 22% a Bologna, in particolare, è un dato da mandare a memoria.
A Torino il discorso è diverso, per chi si occupa di politica anche più affascinante. All’interno della vecchia guardia post-comunista, che in quella storia hanno rappresentato figure di vertice, tra gli uomini che hanno ruolo e potere istituzionale, uno solo ha fatto professione di fede politica apertamente convintamente renziana, ed è Piero Fassino, sindaco uscente di Torino. Ha costruito nei mesi scorsi un’alleanza più larga che si può, spingendo soprattutto al centro, diciamo così. Imbarcando “moderati” di ogni risma, scoprendosi a sinistra, puntando forte sull’ipotesi di chiudere la partita al primo turno o, almeno, di arrivarci molto vicino. Non è successo. Chiude al 41% dei voti circa e distanzia di 10 punti percentuali Chiara Appendino, la candidata dei Cinque Stelle di cui, da mesi, chi conosce la politica torinese diceva un gran bene. I voti di distanza sono tanti? Ancora una volta, dipende dai punti di vista. Intanto, il Movimento Cinque Stelle, a Torino, rischia di prendere più voti del Pd, e quindi di essere il primo partito. E poi, tra quelli che al ballottaggio non ci vanno, il fronte composito degli avversari del pd e di Renzi è sicuramente più ampio. Leghisti, forzisti e anche la sinistra estrema di Giorgio Airaudo, che difficilmente può scendere a patti con Fassino. Anzi.

Una sinistra estrema che, a parte i casi in cui vince in prima persona, con quella bestia strana di De Magistris, a questo giro conta poco e niente in tutte le principali città. Ci sarà tutto un affannarsi a dare la colpa a quelli più a sinistra del Pd, ma stavolta, a guardare i numeri, mostrano un po’ dappertutto il loro velleitarismo, la propria irrilevanza, e la loro incapacità di organizzare davvero un’area di dissenso di e da sinistra. È così dappertutto, anche nel caso monstre di Milano. La città che a Renzi aveva dato la benedizione più ampia, con il 45% dei consensi alle europee del 2014 al solo Pd, contando oltre 257 mila voti al partito del premier. La città che usciva da cinque anni di buon governo di centrosinistra e che, dopo la rinuncia di Pisapia a ricandidarsi e le travagliate primarie che avevano visto la vittoria fragile di Sala, vedeva candidato l’uomo simbolo dell’Expo, del grande evento ottimista e positivo, del cambio d’umore di un paese. Oggi, alla fine dello spoglio, si trova a contare una vittoria che è un pareggio, come perfettamente preconizzato da Paolo Natale con ampio anticipo, ed è un florilegio di incognite future. Un ballottaggio che sarà una partita aperta, tesissima, con un pugno di voti che restano fuori dagli schemi (i Radicali, ad esempio), qualche minuscola lista civica, una sinistra/sinistra guidata da Basilio Rizzo che probabilmente sentirà il richiamo del vecchio nemico, e un voto dei Cinque Stelle tutto da capire. Certo è che alla fine il vantaggio di Sala è di poche migliaia di voti e se vittoria sarà, sarà di quelle sudate, risicate, faticosissime. Il Pd, rispetto alle europee, vede dimezzati – non per dire, è proprio questione di numeri – i suoi voti. Sala paga sicuramente lo scotto di diversi errori, di una fronda a sinistra che più che convergere su Rizzo è stata a casa ma, ancora una volta, il dato che emerge va proiettato fuori Milano: proprio perché Milano si sentiva e veniva spiegata come capitale di questa nuova onda. Qui l’avversario del centrosinistra non è il Movimento Cinque Stelle, non è un leghista solitario, ma è il centrodestra classico di matrice milanese, anche se guidato da un distinto signore romano come Stefano Parisi. L’ultimo lampo di lucidità di Berlusconi è stato inventarsi questo candidato gentile, che parla bene, che ha un lessico politico di chi si è formato a sinistra, che sa stare a tavola come piace ai milanesi. Salvini è lì dietro, ma dalla foto è pian piano scomparso. Lo schema è quello antico e pratico, tra le grandi città, solo quassù: tutto il centrodestra, insieme, guidato da un buon borghese.

Il risultato di Milano dice, al di là di tutto, che questo schema ha ancora – o ha di nuovo, più precisamente – una sua logica, una sua forza, anche se Berlusconi non c’è più, e certo non è più quello di dieci anni fa. Che questo schema ritrova una sua forza e una sua competitività a determinate condizioni. Quando il processo politico che porta a una candidatura fredda e tecnica, come quella di Sala, perde punti in termini di partecipazione e entusiasmo nel centrosinistra, generando il più grave caso di astensionismo, come a Milano? Sicuramente. Quando l’astensionismo mescola le carte in tavola e scompagina gli schemi dati per acquisiti? Senz’altro. Quando un’eredità simbolicamente pesante, come quella di Pisapia, non trova il modo di essere canalizzata in modo sensato per colpa di tanti, a cominciare da Pisapia? Sicuramente. E tuttavia il dato resta impressionante: il centrodestra unito, a Milano e solo qui ritrova competitività, e si candida a ripartire dal governo della sua capitale. Vada come vada, Parisi la sua sfida l’ha già vinta, e domani o dopo il suo nome non potrà non stare tra quelli che possono scrivere la storia del polo moderato/conservatore in Italia. Anche perché, dove imbrocca il candidato, come a Milano, Forza Italia prende circa il doppio dei voti di Salvini e della sua Lega. Per uno schema di vecchio centrodestra che tiene, Milano, ce n’è una, certo più piccola e meno pensate, in cui tiene il vecchio centrosinistra, quello che nel 2011 portò Pisapia al governo, ed è Cagliari. Nel capoluogo sardo, Massimo Zedda, alla guida di una coalizione ampia e inclusiva, vince al primo turno, e forse anche questo dato andrà preso sul serio.

Le città interessate da questo voto sono molte altre, e tutte confermano e rafforzano la tendenza di un voto che mette seriamente sotto scacco il partito democratico di Renzi. Alla fine di una campagna elettorale in cui Grillo si è nascosto fino alla clamorosa assenza al comizio finale di Virginia Raggi (scommessa vinta), in cui Berlusconi ha vinto nell’unica partita che ha giocato davvero (Milano), il leader del Pd deve fare la non particolarmente congeniale pratica dell’autocritica. Ne va della sua carriera futura, e a questo argomento crediamo sia sensibile. Ha puntato su uno schema di bassa affluenza e alto consenso (lo stesso che lo aveva premiato alle Europee) che già sembra non funzionare più. Ha trascurato la formazione di una classe dirigente locale radicata, preferendo dare a tutti coloro che lo criticavano dei gufi e dei rosiconi, e ha sbagliato, visto che più o meno dappertutto – fosse anche solo per questione di poltrona – quelli della minoranza si sono sbattuti come e più degli altri. Ha infine cercato di dire che questo non è un test che lo riguarda davvero, e lo ripeterà, ma è una bugia puerile, che come tale tutti identifichiamo. Perché questo voto dirà di lui tantissimo. Non lo spingerà a dimettersi se non lo vuole fare, certamente, ma costituirà la base per misurare la sua capacità di leggere le situazioni politiche e anche la base sulla quale si avvia verso il referendum sulla Costituzione, improvvidamente trasformato nel referendum ufficiale sulla sua persona.

Sarà difficile arrivarci intero se, tra quindici giorni, non si tiene Bologna, Torino e, soprattutto, Milano. In caso contrario potrà raccontare la versione che vuole. Ma nel segreto del suo cuore lo saprà, nitidamente, che non potrà proprio stare sereno.

 

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CAT: Partiti e politici

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