La retorica del «gratis è bello» che scalda i cuori di Jovanotti e Luca Sofri

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6 Giugno 2015

«Siate contenti, siate felici, voi potete fare della vostra vita qualsiasi cosa». Il lavoro, le opportunità, ve le dovete andare a cercare per il mondo, dice Lorenzo ai ragazzi dell’Università di Firenze, queste cose non ve le racconta nessuno, ve le posso dire io perché è come se fossi un fratello maggiore, forse anche un genitore vista l’età. Seguendo la sua implorazione laica («non fatemi passare per uno che ha detto che è giusto lavorare gratis»), mi sono cibato dell’intera “lectio” jovanottiana, dove intorno all’ora e ventisei minuti l’eterno ragazzo Lorenzo se n’è uscito con le frasi che gli sono costate un fiume di polemiche. Ha parlato di una grande adunata rock americana dove gravitavano centinaia di ragazzi a dare fisicamente una mano. «E questi chi li paga?», ha chiesto. Nessuno, gli hanno risposto, sono già contenti di essere qui, di respirare quest’aria, di fare esperienza. “Significa che comunque non è gratis”, ha riassunto Lorenzo, ricordando poi quando, adolescente, sui 14-15 anni, si divertiva “come un pazzo” a fare il cameriere nelle sagre. Ovviamente, gratis.

Come sapete, la Rete non ha perdonato. La Rete su questo non perdona mai, perché il lavoro per i giovani è una ferita che sanguina. La Rete non vuole leggerezza, non vuole ironie, non vuole la morale. Fa la morale. La Rete non vuole soprattutto sentirsi immatura rispetto a chi definisce tali i tuoi atteggiamenti, soprattutto quando la tua stella polare è il lamento. Jovanotti dice che l’atteggiamento cambia il mondo: “Se uno è lamentoso, ogni giorno troverà mille motivi per lamentarsi”.  La Rete si incazza unita perché non è parcellizzabile in più sentimenti, in più sfumature, è la sua grande debolezza, travestita da illusione di forza, d’essere esercito che marcia compatto contro il nemico del momento.

Togliamoci dalla Rete, per un momento. Torniamo in noi, contando solo sugli amici veri di una vita che saranno poi cinque o sei al massimo e non sui quattrocento di FB. E ragioniamoci un po’ su questo “gratis è bello” che comunque Lorenzo sostiene di non aver certificato e chissà poi perché, visto che dare gratuitamente una parte di noi per una causa che ci appassiona è nobilissimo trasporto. È avventura, condivisione, conoscenza.

Ma qui non siamo noi che lavoriamo gratis ad essere al centro della questione. No. Tutti quelli che lo fanno, a vari livelli, vivono su un «ricatto sentimentale» a cui è onestamente è difficile resistere e che ci viene sostanzialmente imposto (magari anche con il sorriso, ma molto spesso senza neppure quello). Il punto è proprio questo: sino a che punto è lecito questo ricatto sentimentale, questa situazione completamente fuori quadro, in cui la sensibilità toccherebbe a chi ha la responsabilità di questa offerta-capestro?

La questione è dibattuta da sempre e non si può semplicemente risolvere con il principio sacrosanto secondo cui «il lavoro si paga». Ma neppure far finta che tutto sia lecito, che addirittura ti si conceda il lusso di fare esperienza e zitto, che l’argomento “paga”, “paghetta”, “sussidio”, “mancia”, o anche “elemosina” non debba mai comparire nei discorsi perché sarebbe quasi una “volgaritè”, per dirla alla Carlà di Fiorello. Eh no. Ci vuole un punto di dignitosissima sintesi. Un punto di sintesi che comprenda le esigenze legittime di chi il  lavoro lo dà e chi il lavoro lo cerca.

Qualche tempo fa, al Festival del giornalismo di Perugia, Luca Sofri se ne uscì con il seguente paradigma, anch’esso massacrato dalla Rete. Io al «Post» ho un certo budget, con cui pagare i giornalisti assunti e un certo numero limitato di collaboratori. Esaurito quel budget, non sarò più in grado di pagare altre forme di collaborazione, per cui se mi mandi un pezzo e a me piace e lo considero meritevole di pubblicazione sul «Post», ti dovrò avvertire in premessa che non potrò pagarti ma tu avrai la tua vetrina. Se ci stai, affare fatto.

Vi sembra che così le forze in campo abbiano pari dignità? Di questi “ricatti sentimentali” nella mia vita ne ho visti moltissimi, tutti ne siamo stati vittime, cercando poi, quando è arrivata l’età della responsabilità, di non diventarne carnefici. Non è accettabile che una persona che ha lavorato, non torni a casa la sera con il suo guadagno, per esiguo che sia. Perché questo fa la differenza, non la cifra ma il “segno”, come si dice nell’arte. E a proposito dell’arte, di questo ne ho parlato con i responsabili di «Cura», magazine internazionale d’arte contemporanea. Nei mesi scorsi hanno cercato un assistente, ricevendo centinaia di curriculum. Hanno creato un questionario con molte domande professionali e proprio per non creare aspettative sbilanciate rispetto alle loro stesse disponibilità, la prima è stata la seguente: “Qual è la tua aspettativa economica?” «Da quando siamo nati, tutti quelli che hanno lavorato con noi,  a qualunque livello di responsabilità, sono stati pagati».

È un fatto di dignità, serve dire altro?

 

TAG: Jovanotti, lavorare gratis, luca sofri
CAT: Precari

2 Commenti

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  1. debora-malaponti 9 anni fa

    Caro Michele, grazie di questo articolo con cui mi trovo d’accordo fino ad un certo punto. E’ vero “il lavoro per i giovani è una ferita che sanguina”, ma la finta morale della dignità del lavoro come risposta in automatico a domande che dovrebbero indagare altro – Come sta cambiando il mondo? Io giovane cosa scelgo per me? Quale visione voglio realizzare nella mia vita? – sono la vera condanna di una generazione e di una grossa parte di un paese che recita ogni giorno in ogni luogo la litania del lamento.
    Io mi ricordo sempre di quella volta che la mia vicina italo-americana cresciuta in Pennsylvania, parlando di come scrivere un CV in USA, mi disse che il fratello minore, nel suo, menzionava il fatto che adolescente tagliava l’erba di casa sua dietro compenso minimo del papà. Il lavoro è una tensione, lo strumento attraverso cui l’individuo si afferma nella società dispiegando e potenziando i suoi talenti e le sue capacità. Il self made man è protagonista della sua vita contro le avversità. In Italia il lavoro è una necessità: se e finché non hai bisogno di lavorare, non lo fai. Fine. Nella cultura piccolo-medio borghese svolgere small jobs in età adolescenziale e anche oltre non aggiunge, anzi, è fortemente controproducente per quelli che si spaccano lavorando per fare il salto da una classe sociale ad un’altra. Dal mio punto di vista, quello di una giovane laureata (prima nella sua famiglia) figlia di un’operaia metalmeccanica e di un carpentiere che lavora da quando ha 14 anni, è impensabile che un ragazzo a 24-25 anni finita l’università non abbia MAI lavorato nella sua vita e che lo stesso ragazzo rivendichi un posto di lavoro qualificato. Sì, siamo figli del benessere e i nostri genitori hanno la loro parte di colpe, ma ora è tempo per una generazione intera di maturare, di confrontarsi senza ipocrisia, di smetterla di farsi chiamare la generazione perduta perché davvero siamo noi individui a dover costruire il nostro futuro con impegno e perseveranza contro le avversità, così è sempre stato, in Italia e nel mondo, e lo sarà ancora. La rete s’infervora, ma dove va a finire poi tutta questa rabbia? Rimane incastrata nella rete e nel lamento complessivo di una generazione che non vuole saperne di crescere.

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    1. michele.fusco 9 anni fa

      Di tutto il suo scritto, gentile Debora, un’espressione mi ha colpito, un’espressione con cui lei definisce la materia: “Il lavoro è una tensione”. E tensione, immaginandone il significato nella sua duplice accezione: sentire il trasporto verso qualcosa che ci chiama con la forza della passione e poi l’altra tensione, quella che unisce emozione, ansia, carattere, spesso delusione. Questa tensione siamo noi. Senza, c’è solo il lamento. Grazie e spero di ritrovarla presto. (michele fusco)

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