Allo sportello del CUP

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12 Marzo 2023

Avere ottantacinque anni significa un calendario appeso in cucina pieno di appuntamenti ospedalieri. Un esame tira l’altro, in sostanza. La scrittura curata, con le consonanti a palloncino, indica luogo, ora, tipologia, e spesso la specifica: 1/2 ora prima. Questa settimana toccava al dermatologo. La pelle di chi ha vissuto tanto si puntella di macchie, come se affiorassero le cime sommerse degli anni. Alcune macule danno fastidi, altre crescono troppo, altre ancora hanno profili tortuosi. Vanno monitorate. E lei queste neoformazioni le ha seminate su tutto il corpo. Dopo l’accettazione, quando ha saputo che non c’era la sua dottoressa , ma un “dottore maschio”, è andata in agitazione. Fuori, nella sala d’aspetto, di riflesso, ho vissuto come mia l’umiliazione di una donna che ha avuto un solo uomo nella vita, e sarà costretta a mostrare a un altro, sconosciutissimo, la sua nudità senza più splendori.
Ma il dermatologo, anche lui avanti con gli anni, richiamato dalla pensione, è stato perfetto. “Mi ha messo a mio agio. Era un po’ nonno anche lui”. Bene. Il responso: un paio di neoformazioni da tenere sotto controllo, sul come si evolvono, ma una, sotto il tallone, l’ha fotografata e ingrandita, ha chiesto da quanto tempo l’avesse, e ha prescritto subito, in sequenza: visita chirurgica, asportazione, esame istologico.
Inutile insistere a dirle che si tratta di prevenzione e routine: la parola tumore è una nuvola nera.
Inutile anche raccontare del tentativo telefonico per prenotare, del disco fisso, della musichetta e la vocina che ti invita ad attendere, e del mezzo coccolone che mi ha assalito. Io, che per prendere sonno devo lottare.
Così stamattina parto per Niguarda, perché lì lei si fida di più, per queste cose. Ho prenotato online, armato delle tre impegnative e il resoconto del dermatologo.
Arrivo prima, come sempre. Dopo, non lo sopporto. Giusto, mi pare di far tardi.
Nel grande spazio del Blocco Nord, un bel via vai, tra gente seduta e gente in sbatta. Mascherina obbligatoria. Quella che ho nel taschino interno del giubbotto non so di che periodo storico sia, ma meno male che c’è. Intanto passeggio, guardo le vetrine senza alcun interesse, butto l’occhio sul grande schermo quando il segnale acustico annuncia il codice di turno, ma so che il mio non può comparire prima dell’orario detto. ZN005, 11.40.
Fa tanto aeroporto.
Dietro i 20 sportelli maggioranza donne. Le preferisco. Mi sembra che abbiano più pazienza, empatia, agilità.
Intanto vedo comparire la prima ZN sul grande televisore. Un tizio che ha prenotato online come me. Dice sportello 22. Lo vedo andare dal 20 all’1, e tornare indietro dall’1 al 20, con l’ansia di perdere il turno, sperando che compaia d’un tratto il loculo 22. Ma il 22 non esiste. E lui si ferma, davanti al dieci, forse perché è a metà, guardandosi il bigliettino, spaesato. Io vado dal ragazzo addetto al totem che sputa i codici di attesa. Gli indico il tipo. Spiego il problema. Lui non riesce a crederci, io garantisco, anche perché sono un ZN anch’io, e non vorrei trovarmi perso uguale, alle 11.40. E il giovane con codino e barbetta si attiva, va sotto lo schermo, lo fotografa, certifica il mistero, telefona a un responsabile. Poi va a rassicurare il tizio, e lo raccomanda allo sportello sei.
E alle 11.44 tocca a me. Allo sportello sette. L’unico maschio. Serissimo. Capello corto e ordinato, un maglioncino elegante, una sciarpa leggera, in tinta. Parto spiegando che ho tre impegnative: visita chirurgo, asportazione, esame sitologico. Mostro cosa ha scritto il dermatologo, e lui fa Sì con la testa: dice subito che bisogna prenotare la visita chirurgica, poi, nel caso confermi l’asportazione, si useranno le altre due. Bene, il primo dei miei dubbi, è stato soddisfatto.
Spara con pistoletta il codice a barre dell’impegnativa, sempre silenzioso, batte i tasti con calma, ma senza pause. Osserva con attenzione lo schermo, riprova, poi mi dice, dispiaciuto, che a Niguarda si va a dicembre. L’impegnativa ha l’urgenza, che significa un mese. Lo so, ma qui non può. Deve provare in un’altra struttura.
Andrò a pagamento, dico. Non ho alternative. Mi dispiace, dice ancora. “Però potrebbe provare in un altro posto.”
So che sarebbe una nuova impresa e che i tempi sarebbero comunque lunghi, e qui c’è un’evidente urgenza. “Cosa farebbe, lei , se fosse sua madre?” aggiungo così, d’istinto, perché lui è rassicurante, ha quella discrezione che mi fa intimo, alla fine.
Mi guarda, almeno tre secondi, e vedo un pensiero lunghissimo e fulmineo. Dice aspetti, e si sposta: scopro che si muove in carrozzina. Le sue gambe non lo tengono in piedi. E questa cosa, ormai, per vari motivi, storie, amicizie, mi coinvolge emotivamente. Troppo, forse.
Aspetto.
Torna, agilissimo, da olimpiade. E scuote la testa. Però non mi congeda. E comincia a tormentare il suo schermo. Non dice altro. E io sto lì, in attesa. Non so cosa stia facendo. Ma taccio anch’io. Mi guardo intorno. Sono più di dieci minuti ormai, che sono allo sportello. Mi sale un sentore di colpa. Ne passano altri cinque, in cui lui, assiduamente, cerca qualcosa. E io inizio a sperare. E quasi al ventesimo finalmente parla: mi dice che gli danno un 24 Aprile al nuovo Galeazzi, zona Rho. Faccio un calcolo rapido, meno di due mesi, va benissimo, rispondo. Deve però informarsi, mi spiega, perché alcune strutture fanno le visite chirurgiche ma non quel tipo di operazione, e “così sarebbe costretto ad andare da un’altra parte, dove le rifarebbero la visita chirurgica.” Chiarissimo. Adesso che vado al volo a prenotare mi informo della cosa, rispondo.
Se vuole glielo prenoto io. Veramente? Può? Annuisce.
Allora sì, grazie. E ricomincia a lavorarci, fino a quando esce la lingua di carta dalla stampante. Evidenzia in giallo luogo, data e orario. E me lo passa.
Sono di merda. Ma quella merda bella. “Io la ringrazio, per la sua gentilezza e pazienza.” Lui abbozza un sorriso. Pallido.
“Mi inchino”, aggiungo. E lo faccio. Dimenticando la sana vergogna, nel blocco Nord, davanti allo sportello sette: uguale all’allenatore giapponese che mi aveva commosso. E quello che mi si infila nel cuore da qualche parte torna a manifestarsi. Mi rialzo, e il suo sorriso ha una temperatura superiore. Ma non dice nulla.
Sul display del suo sportello compare un nuovo codice.
E io volo via. Con la prenotazione in mano. Contento. Come se avessi conquistato una sacra testimonianza.

TAG: assistenza sanitaria, gentilezza, lavoro precario, medicina
CAT: Sanità

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